L’andamento demografico che impone una riflessione

L’andamento demografico che impone una riflessione

di Donato Iacobucci
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Mercoledì 18 Agosto 2021, 20:57

In un precedente articolo sullo spopolamento delle aree interne avevo commentato le proiezioni demografiche fornite da Eurostat e dall’Onu le quali prevedono per l’Italia una contrazione della popolazione residente nei prossimi decenni. Uno studio dettagliato sull’evoluzione demografica a livello mondiale è stato pubblicato l’autunno scorso sulla rivista The Lancet. Lo studio è basato su una nuova metodologia di calcolo dei tassi di fecondità (numero medio di figli per donna) che consente stime maggiormente accurate di quello fornite dall’Onu. Le previsioni relative ai singoli paesi tengono conto anche di altre variabili sociali ed economiche che influenzano l’attrattività dei flussi migratori.

Queste nuove proiezioni demografiche rivedono al ribasso le stime di crescita della popolazione nei prossimi decenni. Lo studio prevede che la popolazione mondiale raggiungerà il valore massimo di 9,7 miliardi nel 2024 per poi declinare a 8,8 alla fine del secolo. La stima per l’Italia è del tutto diversa. Lo studio prevede una continua riduzione della popolazione residente che a fine secolo sarebbe dimezzata rispetto ai valori attuali. Di fronte a previsioni di lungo periodo si è tentati di alzare le spalle. Perché preoccuparci di quello che succederà nel 2050 o nei decenni successivi? In realtà stiamo parlando del paese nel quale vivranno gli attuali ragazzi e adolescenti oltre che le prossime generazioni. Come ricordano gli autori dello studio prima citato, l’andamento demografico ha conseguenze sociali, politiche ed economiche rilevanti; che un paese dovrebbe tenere ben presente nell’impostare i propri piani e le proprie politiche.

Un tasso di riduzione così drastico della popolazione produce significative conseguenze sulla struttura per età, con un drammatico peggioramento dell’indice di dipendenza, cioè del rapporto fra la popolazione non attiva e la popolazione in età da lavoro. L’invecchiamento della popolazione genera anche opportunità; e le Marche si sono da tempo candidate ad essere punto di riferimento in questo ambito, sia per gli studi sull’invecchiamento sia per lo sviluppo di beni e servizi destinati alla longevità attiva. Il calo demografico previsto per l’Italia dovrebbe essere preso in più seria considerazione nel dibattito politico, non solo per tener conto dell’inevitabile cambiamento dei bisogni espressi da una popolazione sempre più anziana ma anche per capire se è possibile contrastare questa tendenza.

È interessante notare, infatti, che le previsioni di andamento demografico non sono per nulla simili all’interno dei paesi della Ue.

A fronte di paesi che, come l’Italia, si avviano a perdere rapidamente popolazione (Spagna, Portogallo, Grecia) ve ne sono altri per i quali la popolazione è prevista stabile (come Finlandia o Danimarca) o in crescita (come Belgio, Norvegia e Svezia). Se consideriamo i due grandi paesi dell’UE con cui siamo soliti confrontarci, Germania e Francia, le proiezioni sono decisamente diverse dalle nostre: per entrambi la popolazione è prevista in crescita nei prossimi decenni, con un picco di 71 milioni per la Francia nel 2046 e un picco di 85 milioni per la Germania nel 2035. Nel caso della Francia buona parte della differenza con il nostro paese deriva dal diverso tasso di fecondità: fra i più alti nella UE per la Francia; fra i più bassi quello dell’Italia. Né è pensabile compensare la perdita di popolazione con i flussi migratori. Come fanno notare gli autori dello studio citato, i paesi in cui la popolazione invecchia tendono ad attirare meno flussi migratori in entrata. E sono in generale meno attraenti per i giovani, come dimostra il crescente flusso in uscita di giovani italiani verso paesi maggiormente attrattivi. L’Italia, in buona sostanza, si è avviata verso una situazione di riduzione e invecchiamento della popolazione. Questo rischia di accentuare il consenso per politiche conservatrici e orientate al breve periodo, che a sua volta contribuiranno ad alimentare questa tendenza. I tassi di fecondità dipendono in larga misura da due variabili: i livelli di istruzione delle donne e l’utilizzo dei moderni metodi contraccettivi. Si tratta di variabili cui è associata una genitorialità consapevole e le possibilità di autonomia e crescita personale.

Anche per questa ragione il dibattito su questi temi è stato sempre molto difficile. Come dimostrano i casi della Francia e degli altri paesi del nord Europa, è possibile conciliare queste diverse esigenze, purché si impostino politiche sistematiche di sostegno alla genitorialità. Il tema continua ad essere scarsamente presente nel dibattito politico del nostro paese e non è affrontato con sufficiente decisione nemmeno nel Pnrr. C’è da augurarsi un cambio di rotta in questo ambito a meno che non vogliamo limitarci ad assecondare le tendenze demografiche previste per il nostro paese nei prossimi decenni.


* Docente di Economia  alla Politecnica delle Marche e coord. Fondazione Merloni

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