La società disumana che spinge le persone a giocare con la vita

La società disumana che spinge le persone a giocare con la vita

di Rossano Buccioni
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Martedì 18 Gennaio 2022, 10:25

Recentemente il Corriere Adriatico si è occupato della vicenda a lieto fine di un giovane osimano che ha vinto la sua battaglia contro la ludopatia. Si è trattato di «una storia di dolore e consapevolezza, di coraggio e dignità, infine di gioia e rinascita». Gli studi sull’abuso di sostanze o sul “gambling” (gioco d’azzardo), dimostrano che non è possibile ricondurre le dipendenze ad un modello di essere umano tradizionale, la cui devianza esprime l’indisponibilità ad accettare le ricompense simboliche del sistema sociale in cui vive. La questione della dipendenza infatti emerge prepotentemente in una struttura di civiltà in cui libertà, autonomia ed indipendenza vengono enfatizzati come valori costitutivi del nostro essere sociale, anche se mai come oggi risultiamo esposti al rischio di sviluppare molteplici forme di dipendenza.

Ne deriva quella che alcuni osservatori hanno definito “condizione additiva” tipica di una organizzazione sociale che da un lato mantiene l’uomo sotto stress - costringendolo ad una esasperante competizione quotidiana - e dall’altro, lo blandisce con ossessive offerte di gratificazione. Oggi la ricerca di esperienze forti assume un significato particolare nel passaggio da un sistema di personalità centrato sull’io-ruolo ad uno diverso costruito sulla “faccia”, nel senso che i canoni dell’identità soggettiva si fanno epidermici e reversibili, consentendo al gioco d’azzardo e ad altre forme di dipendenza di garantire una sorta di fuga dalla realtà o dalle emozioni negative, producendo un forte effetto di affrancamento, come anche di disorientamento, di ipnosi emozionale, ma anche una pericolosa intermittenza identitaria. Del resto, la logica lineare di efficientamento, funzionalità e controllo sociale cui siamo esposti costruisce un meccanismo così potente da risucchiarci al suo interno operando un effetto-disumanizzazione che trasforma i legami e le relazioni facendoli diventare deboli e reversibili. A differenza dei quadri sintomatici riferibili alle patologie dell’inibizione e del controllo – nevrosi e isteria, gli attuali disagi della civiltà sembrano caratterizzarsi per una inclinazione all’eccesso ed all’azione irriflessa, strategie che mettono al centro dei vissuti una crescente difficoltà nella gestione degli impulsi.

Le relazioni tra modello di società e sofferenza individuale presuppongono dei rapporti tra il tutto e la parte capaci di instaurare logiche causali specifiche, ma ciò diviene sempre più difficile perché la crescente intrasparenza – quando non indifferenza - tra umano e sociale, rende sempre più improbabili le tipiche modalità istruttive che consentono ad un sistema sociale integrato da valori sensibili all’humanitas di scandire i tempi di vita a garanzia di una certa coerenza biografica. In contesti di forte differenziazione sociale, gli individui non fanno più dipendere l’architettura del proprio processo di socializzazione dalla immediata adesione ad un sistema di valori di riferimento capace di garantire il rispecchiamento tra sistema sociale e tessuto psichico.

Tutte le forme di dipendenza si sostituiscono alle intermittenze di quel rispecchiamento. La continuità tra identità ed identificazione tipica della società tradizionale, viene meno in quella fortemente differenziata di oggi perché tra società e persona non si determina una logica di tipo puramente assimilativo, in cui il sistema sociale assorbe energia dalle coscienze istruendole in modo tale da rendere loro tollerabile il duro tirocinio previsto dal processo di individuazione. Se nella nostra società l’individuo si costruisce prescindendo dal rispetto dei vincoli – nell’agire e nel pensare - che associavano immediatamente la normazione interna a quella esterna, è chiaro che definirà il proprio sistema di personalità in base ad una offerta identitaria centrata su elementi di reversibilità e scarsa cogenza esistenziale tipici di una società di mercato, dove le esperienze vengono consumate e vissute come merci, dato che la soddisfazione degli impulsi non è più un qualcosa da reprimere in vista di un differimento maturativo, ma qualcosa cui cedere immediatamente per evitare di sentirsi al di sotto di sé.

Le dipendenze dimostrano come il rapporto individuo/società divenga problematico perché il disagio individuale, non essendo più immediatamente disagio sociale, non solo rende assai arduo l’intervento esterno sulle traiettorie di vita individuali, ma rende accettabile da parte della cultura diffusa una serie di stili di vita che guadagnano in legittimità alla luce dell’evaporazione di un “telic system” (valori di riferimento). Viviamo dunque una condizione in cui crescono i comportamenti problematici che hanno a che fare con l’incapacità di controllare il desiderio dettato dall’impulso, impedendoci di percepire un personale senso del limite. Se la società/mondo schiaccia l’umano distaccandosene in modo crescente, la psicologia individuale non potrà essere sostenuta, curata o assistita ristorandola di quella socialità dalla cui sottrazione si pensava derivassero le sue difficoltà. Il vuoto che ne deriva, come in una reazione condizionata, muove ad azzardare in modo crescente.

Oltre ai noti comportamenti di addiction da sostanze o alcol, assistiamo infatti ad uno sviluppo di comportamenti a rischio che si costruiscono quasi per inerzia al livello del rapporto agire/esperire ed in assenza di un oggetto concreto che motivi direttamente l’assunzione di rischio. In questa situazione lo stesso concetto di disagio perde la sua capacità esplicativa perché ci confrontiamo con delle “neo-normalità” che si definiscono a livello comportamentale sulla falsariga di ciò che pochi decenni fa veniva ancora pensato come deviante.

* Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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