Il Redentore al freddo ed al gelo e l’attuale inverno demografico

Il Redentore al freddo ed al gelo e l’attuale inverno demografico

di Rossano Buccioni
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Martedì 27 Dicembre 2022, 06:20

I vagiti della culla di Nazareth illuminano di luce epifanica il futuro, anche se tra i regali portati dai Magi al piccolo Redentore c’è la Mirra, severo presagio della “felix culpa” del genere umano tutto. Se nelle culture arcaiche il passato era la dimensione temporale orientativa, il futuro veniva inteso alla luce della generazione, con i figli che erano “discendenza” cioè proiezione biografica oltre gli scoraggianti limiti anagrafici. Il dato antropologico trova una divinizzazione nel Cristianesimo con la buona novella che - profeticamente - metteva in tensione il passato profondo e la sua immediata proiezione nel futuro.

La santa nascita sintetizza origine e proiezione, con un Dio che si fa Carne all’insegna della completezza donata al mondo come ricompensa definitiva e suggello dell’amore divino. Questa apologetica – pur viva e concreta nella dimensione spirituale di tanti credenti - non determina più l’orientamento e l’integrazione sociale che, da sacrali, diventano secolari, eleggendo il futuro a dimensione temporale di riferimento. Quando l’orientamento dell’essere era volto all’aldilà, mettere al mondo dei figli era ritenuto un segno della vicinanza divina, ma anche il tentativo di opporre la propria discendenza alla dittatura della scarsità. Aumentando la speranza di vita alla nascita il futuro diviene più prevedibile, ma paradossalmente anche più insidioso, perché lasciato alla costante decidibilità umana.

Pur godendo di maggiori risorse e possibilità di decisione razionale non si fanno più figli perché è all’interno degli orizzonti dell’io che si costruisce l’intera rappresentazione della realtà con il secolarismo che pone l’io al posto di Dio. Inoltre, è proprio dalla separatezza sociale realizzata sull’altro che l’io si percepisce nel contesto altamente competitivo del sistema sociale. In questo quadro di egoismo diffuso e conflittualità normalizzata, l’apertura al futuro confligge con l’obbligo di continua edificazione competitiva del sé che, in un quadro di incertezza occupazionale ed economica, determina una profonda revisione dei modelli culturali relativi alla procreazione, all’interno di segmenti sociali segnati dalla tendenza a rinviare le fasi di passaggio alla vita adulta. Nell’attuale contesto socio-culturale la scelta di diventare genitori, dall’ovvietà trapassa nell’improbabilità.

Se un evento inatteso può mettere in dubbio la mia capacità di immaginarmi nel futuro – erodendo l’effetto rassicurante del mantenimento delle mie competenze nel tempo (G. Dubar) - e se un figlio ridiscute il senso della mia vita, le ragioni della maternità e paternità responsabili saranno schiacciate da quelle di altri ordini di priorità. Quello della denatalità è un problema sociale multifattoriale che, ridiscutendo il rapporto individuo/società, riconfigura il senso di continuità personale nelle nuove dimensioni del tempo sociale.

Esprimendo pienamente lo sbilanciamento tra importanza totemica del presente ed inconsistenza dei materiali culturali disponibili per una sua messa in discussione, le culle vuote incarnano le difficoltà dell’uomo contemporaneo ad abitare le dimensioni temporali in un progetto di coerente emancipazione e di autentica apertura alle risorse della diversità. Non a caso, molti demografi sostengono che anche un eventuale miglioramento degli interventi a sostegno della genitorialità di per sé non si tradurrebbe in una maggiore propensione ad allevare figli proprio perché la denatalità è un problema più profondo, di mentalità diffusa, quando non di autentica dittatura dell’io.

Chi studia il fenomeno più da vicino, spesso cede a nostalgie omeostatiche, di equilibrio sociale non a-problematico tra la parte ed il tutto, inclini a fidarsi della coincidenza intuitiva tra comunitario e psichico o tra simbolico e relazionale, anche se il fenomeno delle culle vuote attesta una volta per tutte le criticità del rapporto tra io e “noi”, dentro una struttura sociale composta di solitudini massificate. Non costruendo la natalità come valore, le possibili soluzioni oscillano tra un riduzionismo estremo (soldi alle giovani coppie, congedi parentali, facilitazione di accesso al credito, ecc.) ed un affidarsi all’alto mare aperto dell’iper-complessità, facendo malamente i conti con il dato che ciò che viviamo adesso come problema, sarà probabilmente destinato ad accrescersi in futuro, permanendo lo scoraggiante numero di variabili sociali in gioco e qualunque sia la strategia risolutiva messa in campo (eterogenesi dei fini). Del resto, un figlio necessita di un box socializzativo di tipo comunitario che c’è in quanto immediatamente compatibile con la vita e con un sistema di significati che le permane devoto.

La de-natalità risulta dunque l’indicatore macroscopico di una condizione post-human raggiunta dai gruppi sociali in condizioni di forte differenziazione. L’iper-differenziazione e la razionalizzazione delle moderne culture occidentali non si accordano con visioni e politiche a lunga gittata favorevoli alla natalità, cedendo ad un’onda lunga di eventi che si cumulano mostrando i propri effetti a distanza di generazioni proprio perché non fare figli è fenomeno auto-implicativo (la denatalità tende a generare altra denatalità, anche se vale pure il contrario). Se chi nasce oggi sarà potenziale genitore tra venti o trent’anni, essendo tali genitori così poco numerosi, non potranno che nascere da loro figli ancor meno numerosi. Le logiche demografiche sono una sintesi severa di fenomeni che legano contingenza sociale pura - comportamenti minuti delle persone – e dinamismi strutturali profondi, inerenti le condizioni di possibilità che ispirano - spesso inconsapevolmente - quegli stessi comportamenti.

* Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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