La moda di piercing e tatuaggi nella costante esibizione del sé

La moda di piercing e tatuaggi nella costante esibizione del sé

di Rossano Buccioni
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Martedì 23 Agosto 2022, 04:40

I residenti di alcune zone di Ancona si lamentano da mesi per il degrado ed i vandalismi procurati da bande giovanili che rendono le notti insonni e le richieste di interventi risolutivi da parte delle autorità del tutto inutili. Di recente sono apparsi tra gli arredi pubblici anche fazzoletti sporchi di sangue e lunghi aghi, strumentario d’obbligo per praticarsi dei piercing fai da te. Si tratta di pratiche di manipolazione corporea a metà strada tra la ricerca identitaria e forme di autolesionismo utilizzate per provare a convocarsi al centro di un contesto significativo, riattivando in modo inedito i deboli portati del sedimento identitario.

Si potrebbe sostenere che la sofferenza faccia parte del processo di identificazione dell’individuo perché capace di strutturarne identità e differenza. Se sopportare il dolore senza lamentarsi diventa segno di forza, il piercing - come il tatuaggio - appartiene alle ritualizzazioni che scandiscono i criteri di assimilazione al gruppo, superando i quali si acquisisce una patente di adultità e di valore incontestabile. Inoltre, l’oggetto inserito nel corpo risponde sia al bisogno di identificarsi col gruppo, sia a quello di distinguersi dagli altri, quando lo si vanta come segno particolare, ovviamente in eccesso rispetto ai contesti della significazione comune. Molte pratiche estemporanee - o ancor più improvvisate - di manipolazione del corpo, attestano una sorta di compressione simbolica a danno di altri significati che entrano comunque nel processo di costruzione socio-culturale della corporeità tardo-moderna e che restano assai più difficili da analizzare.

In quella che il filosofo Byung Chul Han definisce società anestetizzata, perdere la sensazione di esistere è come sentirsi morire ed in tali circostanze l’autolesionismo può diventare un atto di disposizione del sé corporeo che reca paradossalmente sollievo, dato che l’autolesionista, deve sentire sé stesso non attraverso il proprio io-ruolo, ma per il tramite del corpo. In molti casi i comportamenti autolesionisti diventano catalizzatori delle relazioni, gestiscono un pericoloso sovraccarico emotivo ed intervengono in stati traumatici. Il corpo diviene luogo di emozioni intollerabili che vanno controllate e in casi come quello di Ancona si potrebbe parlare sia di autolesionismo a fini comunicativi - dove la condotta manipolatoria diventa un modo per comunicare con il sé corporeo - sia di autolesionismo come strategia di regolazione della sfera emozionale, nel tentativo di liberarsi da una grande sofferenza tentando di dare nuovo impulso ad un sé frammentato.

Che si tratti di Cutting (tagliarsi con un oggetto affilati), Burning (provocarsi bruciature o ustioni) o di Branding, cioè marchiarsi con oggetti roventi, appare del tutto evidente come le condotte autolesionistiche non esprimano un senso univoco, non spiegando una volta per tutte perché le persone si auto-danneggino.

Si tratta di comportamenti che vanno interpretati come punto di arrivo di percorsi biografici piuttosto sfaccettati; l’oggettività del dato (il danno cutaneo) non deve ridimensionare l’aspetto soggettivo della scelta, quello che chiama in causa direttamente i vissuti della persona. Certamente la ricerca di riconoscimento può transitare attraverso pratiche autolesive e quando una persona si procura deliberatamente un danno fisico può trattarsi di un comportamento morboso di auto-aiuto, che utilizzando il corpo come testo, da un lato lo mostra in ostaggio e, dall’altro, ne fa il luogo espressivo di un’esigenza liberatoria che la persona stava cercando di far emergere da tempo. Così, nel pieno di crisi esistenziali di tipo depressivo, può capitare che molti giovani, privati di ogni contatto affettivo ed impossibilitati a pensare il senso della vita oltre il loro isolamento, avviino quasi per inerzia la ricerca del dolore come surrogato di riconfigurazione relazionale, rigenerazione comunicativa e consapevolezza di poter perseguire una diversa regolazione emozionale.

Sulla scorta di tali riflessioni dovremmo anche chiederci perché il piercing ed il tatuaggio siano stati reinterpretati dalla cultura occidentale solo nel cambio d’epoca determinatosi nel passaggio dal moderno al postmoderno e come queste pratiche – estrapolate dai libri di antropologia – abbiano incontrato i processi di socializzazione dei gruppi umani, alle prese con una offerta identitaria particolarmente ricca, ma altrettanto debole. Le motivazioni di coloro che affrontano simili torture riguardano decisioni prese coscientemente e non si tratta di pratiche sociali rubricabili come mode effimere sostenute da banali istinti imitativi.

E’ certo che in esse agiscano forti motivazioni inconsce, capaci di tratteggiare una nuova sociologia della corporeità, soprattutto perché non si tratta di un fenomeno confinato all’interno di gruppi marginali, ma coinvolge ormai tutti gli strati sociali, coincidendo con le tante tensioni che si esprimono nella caratterizzazione del corpo come luogo dell’umano. Privi di una sponda culturale capace di valorizzare l’unicità irripetibile del bios che si esprime nella nostra storia di vita, in molti decidono di fare un’esperienza che, convocando il corpo all’interno di una rivendicazione di unicità, lo renda diverso da quello delle persone normali, in un’esperienza di eccezionalità attraverso cui dimostrare forza di sopportazione del dolore e piena determinazione a mantenere aperto lo schema corporeo sul rischio e sull’ignoto. La cultura occidentale, rimuovendo insistentemente il valore della vita e della sua irripetibilità, assiste ripetutamente a tentativi di recupero della dimensione corporea, al centro di rinnovati interessi filosofici e di inedite osservazioni della realtà.

  * Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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