Quella battaglia per l'identità da cui nessuno esce indenne

Quella battaglia per l'identità da cui nessuno esce indenne

di Rossano Buccioni
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Martedì 5 Novembre 2019, 10:47
Il Corriere Adriatico di martedì 22 ottobre, dava notizia del tragico epilogo della vita di un sessantaquattrenne residente a Pagliare del Tronto che poneva fine ai suoi giorni con un colpo di pistola sulla tomba della consorte, all’interno del cimitero della frazione di Spinetoli. Nel 2013 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha adottato il “Mental health action plan” che tra i tanti obiettivi da raggiungere entro il 2020, indicava anche la riduzione del 10% del tasso mondiale di suicidio. L’Oms rimarcava pure la necessità di un atteggiamento responsabile da parte dei media per le informazioni divulgate sui casi di suicidio, cercando di evitare un linguaggio sensazionalistico e rappresentazioni dell’azione suicidaria come soluzione dei problemi personali. Il fine del suicidio, cioè procurarsi la morte, distoglie l’attenzione dalle circostanze e dai mezzi usati per conseguirlo, anche se si ritiene che nella scelta delle modalità e del luogo, entrino in gioco numerosi fattori, come il livello di intenzionalità maturato o caratterizzazioni dell’agire di tipo imitativo o simbolico. Nel nostro Paese, l’impiccagione, l’utilizzo di armi da fuoco e la precipitazione da luoghi elevati, continuano a rappresentare le modalità più frequenti tra i suicidi maschili. Il caso di Spinetoli proporrebbe una modalità inedita - anche se non del tutto infrequente - come si evince dalle cronache minute del disagio diffuso contemporaneo. Il filosofo Paul Ricoeur sosteneva che nella temibile battaglia per il senso, niente e nessuno esce mai indenne ed i casi come quello in questione ci dimostrano che essendo l’oggetto d’amore ormai interiorizzato non in forma di ricordo, ma in quella di presenza, doverlo far rivivere vuol dire non poter collocare nel passato ciò che è passato, perché si vive l’obbligo di rendere il passato ancora presente. Da ciò derivano frequenti casi di lutti che seguono percorsi patologici in cui l’individuo non riesce a trovare nuove circuitazioni affettive dentro rinnovati assetti di vita e di personalità. La nostra contemporaneità è caratterizzata da una profonda scissione tra l’esigenza individuale di dare alla vita un senso - recuperato tutte le volte che una crisi lo mette in discussione - e l’incapacità ormai manifesta della nostra cultura di tutelarne l’efficacia, manifestando la dolorosa contraddizione tra una società che tende a non porsi più il problema del senso della vita ed un individuo che deve porselo se vuole in qualche modo continuare ad andare avanti. L’amore è la forma più intensa d’interazione fra due persone ed è naturale, quindi, che la morte di un partner rappresenti sempre un trauma dalle imprevedibili implicazioni. Nelle unioni che sono divenute così forti da rendere l’altro co-essenziale, la vita di chi resta continua a specchiarsi in quella di chi non è più, all’insegna di una equivalenza che rinnova i frutti di un sentimento fattosi tensione istintiva verso l’altro e cifra di interpretativa del proprio stare al mondo. Si comprende allora come la morte di una persona cara possa risultare devastante e ritrovare l’amore per la vita diventare impresa impossibile. Accade che molte persone con un lutto prolungato perdano rapidamente il senso della propria identità. Ove superato, il lutto consente di ridefinire il proprio sé, dato che sperimentiamo le emozioni più laceranti in situazioni di costruzione, mantenimento e/o rottura dei legami affettivi, con le separazioni (perdite parziali) ed i lutti (perdite definitive), che diventano momenti determinanti - in termini di elaborazione cognitiva ed emotiva - di promozione delle dimensioni di significato personale garanti del sentimento di noi stessi e del mondo. Si tratta di momenti in cui facciamo gli sforzi più intensi per conservare integro il nostro senso di continuità e di coerenza interna. Di questa coerenza però il sessantaquattrenne di Spinetoli non è riuscito più a giovarsi, con il lutto che ha destrutturato la dimensione identitaria per come viene comunemente intesa, vale a dire il modo in cui l’individuo si percepisce e si costruisce in quanto membro di gruppi sociali che vanno dalla classe di età alla cultura, dal mestiere al livello sociale di appartenenza. Sul piano antropologico invece, si considera l’identità come il complesso di rappresentazioni con cui ogni individuo si pensa e si relaziona rispetto a sé, al gruppo cui appartiene ed alle dimensioni di esistenza esterne percepite come altro da sé. Come si vede, l’identità non è un dato originario, ma l’esito di un delicato processo di identificazione in cui centrale è la dimensione delle relazioni. Nel caso di cui scriviamo l’intero dispositivo identitario è franato sotto il peso del trauma, avvenimento il cui impatto va oltre le capacità di resistenza dell’individuo, distruggendo la trama fondante il senso d’identità, dato che interrompe il rapporto che la vittima mantiene con il mondo. Le persone con lutto prolungato pensano che tutto sia perduto, che nulla abbia più senso per loro, indipendentemente dagli interessi coltivati prima, risultando dominate dallo struggimento per l’essere amato e non desiderando altro se non riaverlo. Si tratta di persone che non ricercano la vicinanza di nessuno, dato che una delle cause del lutto prolungato è una chiara dipendenza emotiva che salda l’angoscia della separazione all’incapacità di percepirsi lontani da chi abbiamo perduto. Il dolore appare come qualcosa di insensato ed anche se è possibile indicarne la ragione sufficiente, resta un elemento che mette in discussione la sensatezza dell’esistenza e dunque la legittimità ad essere del tutto. Il dolore ha senso quando più nessuna altra cosa ne ha (N. Luhmann).

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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