Le contraddizioni formative della società complessa

Le contraddizioni formative della società complessa

di Rossano Buccioni
4 Minuti di Lettura
Martedì 26 Aprile 2022, 10:30

In una recente intervista lo psicologo David Lazzari affrontava il tema della formazione e dell’orientamento dei giovani nella società iper-differenziata, sostenendo che in «un mondo complesso servono più competenze dato che la formazione non può limitarsi ad essere solo una campagna promozionale». Si va consolidando una idea di formazione nel senso di potenziamento specifico, dando ormai per scontata l’esasperazione delle condizioni generali della competizione. Non si tratta allora di formare avendo ben chiaro un perimetro esistenziale oltre il quale esprimere l’umano diventa impossibile, ma di addestrare alla resilienza, sdoganando un presupposto di additività connaturata alla matrice largamente antiumana dei rapporti sociali. Ciò che resta dell’umano al tempo presente evolve all’interno di presupposti ambientali sempre più improbabili, a meno che l’idea stessa di umanità venga declinata in un’ottica di funzionamento e di sua piena esigibilità. Formare dunque, ma a quali condizioni sociali? La maggioranza dei giovani è espressione di condizioni di opulenza e sovrabbondanza da intendere anche come «addormentatori sociali» (M. Recalcati) che predispongono alla noia ed all’indifferenza. I giovani vivono di gesti che non costruiscono una visione del mondo, di percezioni che si consumano nella ripetizione e di progetti che muoiono presto perché troppo indebitati con le illusioni. Sferzati dal bisogno di ottenere ricompense, svendono facilmente i loro repertori sentimentali a beneficio di asset comunicativi regimati dall’ipocrisia sociale ed allucinati dall’idillio con la razionalità più gelida e calcolante. Questo «tirocinio della rassegnazione» si compie in gran parte nel sistema scolastico e rientrando nella generale logica della quantificazione, i docenti giudicano i propri studenti in base al profitto, come nel mondo del lavoro gli impiegati sono considerati in base al criterio dell’efficacia della propria prestazione. Se si quantifica ci si consegna alla dittatura del calcolo che esclude dal percorso scolastico una serie cospicua di ambiti che non si lasciano facilmente misurare in base ai parametri dell’efficientamento: emozioni, desideri, identificazioni, ecc. Nella scuola di debiti e crediti finiscono dunque per ottenere buoni successi «quei ragazzi che hanno un basso livello di creatività, scarsi impianti emozionali e limitate proiezioni fantastiche» (U. Galimberti). Più le nozioni da assimilare sono disanimate e formalistiche più verranno facilmente assorbite in un grottesco immagazzinamento che può solo alternarsi ad un altrettanto inevitabile svuotamento, il tutto all’insegna di una anestesia emozionale che istruisce la relazione educativa solo dal lato di uno snervante apprendistato. La società di mercato impone le sue logiche ricorsive: potenziare il potenziamento o certificare competenze raggiunte significa solo ribadire che i modelli sociali si incentrano unicamente sullo scopo finale atteso, togliendo significato all’esperienza umana di maturazione assimilativa.

Nel 1994 l’Organizzazione mondiale della sanità approvava il documento “Educazione alle competenze per la vita nella scuola per bambini ed adolescenti”. Si trattava di «competenze psico-sociali che riguardano la capacità di affrontare le richieste e le sfide della vita con un comportamento adattivo e positivo, mantenendo un adeguato benessere psicologico». Negli ultimi decenni le due ultime istanze si sono divaricate sempre più per entrare spesso in contraddizione con le richieste conformizzanti della società complessa che operano sofisticati condizionamenti a danno della continuità psico-biologica individuale. Il documento Oms nasceva dalla constatazione che una serie di irreversibili cambiamenti nel contesto sociale richiedevano sempre maggiori capacità di tipo psicologico (a livello cognitivo, emotivo e comportamentale), ignorando silenziose trasformazioni che investivano, ad es., il rapporto tra coscienza e coscienziosità, con l’aumento delle mansioni - e la necessità di correre nuovi rischi derivanti dall’incapacità di farvi fronte - che mutava la consapevolezza di sé in silente routine esecutiva. Il successo si lega dunque alla personale capacità di adattarsi alle esigenze degli altri anticipando le conseguenze negative dei corsi di azione che ci potrebbero predisporre alla realizzazione di noi stessi e che nella “società del rischio” sbiadiscono rispetto al mansionario normopatico centrato sull’uniformità. La nostra è una civiltà basata «sull’uomo modulare, vale a dire un individuo che tende ad eliminare i moduli inutili per sostituirli con quelli utili» (M. Benasayag). Lo stesso autore, parafrasando Robert Musil, parla di una «qualità senza uomo» dove l’auto-riferimento dei sistemi sociali assorbe lo spessore pro-sociale di un’esistenza del tutto individualizzata. Rispetto ad un ambiente socio-culturale sempre più neutro dal punto di vista dell’impegno fisico, ma sempre più estremo dal punto di vista dell’economia relazionale, il totale adattamento alle condizioni sociali coincide con la progressiva rinuncia a ridiscuterne i condizionamenti. Appare evidente come la mente umana fatichi ad adattarsi ad un contesto sociale che vede insistentemente aumentare le richieste di adeguamento superando -fino a renderli superflui - i risultati appena raggiunti. Da un lato chiediamo ai processi formativi di colmare il gap relativo alle dinamiche intrinseche dell’addiction society – tendenti a far sentire l’essere umano perennemente inadeguato ai modelli sociali di riferimento – ma, dall’altro, non comprendiamo i feedback negativi che la fine dell’integrazione “valoriale” del sistema sociale ripropone insistentemente (imponendoci sempre nuovi adeguamenti educativi).

* Sociologo della devianza e del mutamento sociale

© RIPRODUZIONE RISERVATA