"Enrico e Riccardo tra il sole e il vento"
Il racconto di Alcide Pierantozzi

"Enrico e Riccardo tra il sole e il vento" Il racconto di Alcide Pierantozzi
di Alcide Pierantozzi
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Domenica 2 Agosto 2015, 21:06 - Ultimo aggiornamento: 7 Agosto, 19:53
ANCONA - Tra poco direte: questo non è il tono giusto per una rubrica estiva. Penserete: questo qui vuole rovinarci la giornata al mare.

Abbiate pazienza. Nelle prossime puntate potrò anche farvi ridere a crepapelle; ciò nondimeno adesso devo raccontarvi una storia triste, perché il mio cuore messo a nudo si sente nell'obbligo di ringraziare due vecchi amici.

Negli ultimi anni sono stato a tal punto preso da me stesso che non mi è mai venuto in mente di parlare di loro. Non so dire perché lo faccio qui; vi basta, come scusa, che la storia in questione sia ambientata nel nostro territorio? Chi di voi ha un rimorso, anche piccolo, comprenderà. In fondo tutti dobbiamo ringraziare qualcuno. Anche se il destinatario di questa riconoscenza non è al corrente della causa per cui lo si ringrazia.

Ho reminiscenze molto vaghe delle scuole medie, di quando avevo dodici, tredici anni. I cognomi dei compagni di classe non li ricordo tutti. Conservo però un'immagine. Tendo a dimenticare i momenti migliori - i sogni di bambino, gli scrosci di risate - ma questa immagine eccezionale, che ho tenuto nascosta in un angolo della mia mente per anni, non è mai sbiadita. I ricordi migliori sono rondinelle che si danno alla fuga; i ricordi infelici, come i merli, non migrano mai.

L'eccezionalità del ricordo ha a che fare con un giorno d'aprile degli anni '90. Ero andato a casa di un mio compagno di classe per uno di quei lavori di coppia, forse un disegno per educazione artistica. Io ero bravo a disegnare, solo che quando mi mettevo a ritrarre una faccia o un paesaggio finivo sempre per aggiungere qualche dettaglio di troppo (l'insegnante di disegno, la Iezzi, aveva intuito qualcosa: Non sono disegni, sono storie). Ma fu Riccardo - anche se lui non lo ha mai saputo - a spalancarmi la strada della scrittura.

Riccardo somigliava al ragazzino di Mamma, ho perso l'aereo, il naso era spruzzato di lentiggini chiare. Nei corridoi della scuola media di Colonnella i suoi occhi assorbivano ogni cosa, quei suoi occhi acquatici di azzurro saturo, come i ghiacci dell'Antartide. Riccardo profumava di segreti; il suo passaggio offuscava la vista. Camminava a balzelloni, le magliette dei gruppi metal fuori dai jeans, una ciocca bionda sulla fronte. Da quale pianeta veniva?

La domanda ha un suo senso. Perché sua madre era inglese, e nel cortile di casa sua c'erano alcuni strani cani che non avevo mai visto, simili a leoni, i chow chow. Li chiamavamo ciao ciao. Riccardo conosceva gruppi musicali di cui ignoravo l'esistenza, film che non avevo mai visto, lingue che non avevo mai parlato. Sapevo che ogni estate prendeva un aereo da solo e raggiungeva sua nonna in Inghilterra. E a me l'Inghilterra sembrava la Luna. E credevo che lui fosse un astronauta in grado di raggiungere mondi lontani prima di tornare a raccontarceli sulla nostra piccola terra, Colonnella. Sapevo anche che passava le ore davanti a un grosso computer da tavolo, lo stesso che quel giorno - il giorno di cui parlo, uno dei più bei giorni della mia vita - Riccardo accese davanti a me. Restando in piedi, inclinai la testa davanti allo schermo e tentai di leggere le parole appena apparse; mi irrigidii. E lui, come se niente fosse: È un libro horror che sto scrivendo, disse scuotendo le spalle.

Un ragazzino che si inventa storie fantastiche? Forse per voi non è niente di speciale. Sappiate però che la prima cosa che ho letto, la prima che io abbia veramente letto, entrandoci dentro con l'anima, non è stata una fiaba sull'antologia di scuola, o un romanzo di Jack London - ma il racconto di un ragazzino dai capelli di luna che se oggi fosse ancora qui, considerate le premesse, avrebbe qualcosa da insegnarmi sull'arte di raccontare una storia e sui metodi più efficaci per agganciare un lettore. Perché quella storia, se i ricordi non mi ingannano, aveva un meccanismo perfetto. Aveva un tono.

No, non ricordo di cosa parlasse ma questo non conta. Era la storia scritta da uno che conosceva i trucchi del mestiere. Forse l'aveva copiata, direte voi. Ha importanza? Se pure l'avesse copiata, significa che l'aveva reputata magica e necessaria al punto di doverla trascrivere.

Ecco, il ricordo di questa scena mi si profila davanti con lo stupore e il profumo di misteri di un baule spalancato. Mi sembra di sentire una frase mai pronunciata: Guarda qui dentro, dentro lo schermo del computer. Hai visto cosa si può costruire con le parole?

La storia di questo mio amico di infanzia - di come, scomparso all'età di quindici anni, si sia impossessato dei miei sogni notturni - è alla base del mio lavoro di scrittore. Un lungo cordolo, un arpione robusto come l'àncora di una nave, mi ha tenuto legato a quel giorno, a quel computer acceso, a quei cani che abbaiavano nel cortile, alla sua bellissima mamma inglese che preparava la merenda in cucina… Tanto che le mie prime incursioni nella scrittura hanno orbitato negli universi della fantascienza e dell'orrore.

Fu una decina d'anni dopo, credo, che ricevetti una telefonata da mio padre. Mi disse che un altro mio compagno delle medie era scomparso, Enrico.

Era stato l'unico dei miei vecchi compagni di scuola a fermarmi lungo il corso di San Benedetto dopo l'uscita del mio primo romanzo. E, cosa che non succede spesso, si era prodigato in un'infinità di complimenti. Aveva un entusiasmo contagioso. Non sembrava più il bambino un po' goffo che era venuto a scuola con me. Era altissimo, atletico. Barba corta alla Balbo.

Adesso penso a lui e ricordo il giorno in cui, alle elementari, corse incontro alla maestra di italiano nell'atrio della scuola, e le gridò: Alcide ha scritto un tema di trenta pagine, presto! Presto, si sbrighi! Del resto è stato lui che, dal suo banco, ha sempre fatto il tifo per i miei temi stranissimi e pieni di errori grammaticali. E anche quando la maestra li leggeva con entusiasmo, ha forse mai mancato di dirle di mettermi un voto più alto, di premiarmi di più?

Scorreva una genuina ebbrezza nelle vene di Enrico. In quelle di Riccardo scorrevano ingegno e ribellione. In entrambi i casi sarebbe meglio dire elisir di energia.

Eccoli lì, i miei due amici di Colonnella, spiriti celesti incontestati del mio mare, delle mie colline, del mio fiume Tronto. Di Colonnella, come di San Benedetto. Quanto al motivo per cui parlo di loro proprio qui per la prima volta, alcuni potrebbero pensare che lo faccia perché erano ragazzi di zona. Non è così. La ragione è un'altra.

Da bambino non andavo mai a casa dei miei compagni di classe. Qualche volta mi invitavano, ma disertavo. La timidezza mi trafiggeva. Feci eccezione soltanto due volte, con loro due, Riccardo ed Enrico. Loro due e, sembrerà strano, nessun altro. Mai.

Erano diversi; lasciate le aule scolastiche, nei pomeriggi invernali della nostra infanzia, entrambi a modo loro divenivano costruttori di mondi. Bambini temerari che sfidavano i luoghi comuni della provincia. Che scrivevano storie inventate e parlavano del film d'animazione Nightmare Before Christmas, come Riccardo, o amavano la pallacanestro e disegnavano sui muri della scuola media, come Enrico.

È passato un po' di tempo da allora, e altrettanto ne è passato dalla loro prematura scomparsa. Che cosa c'è di più innaturale del morire da giovani? Crudeltà del caso. Eppure chissà, magari hanno ragione certi antichi culti orientali. Probabilmente muoiono coloro che sono pronti, quelli che hanno meditato a fondo - anche se in breve tempo - sul senso di ciò che li attornia, come i frutti, che non cadono mai acerbi, nemmeno se li stuzzichi con un bastone, ma solo quando hanno assorbito tutto il sole possibile e resistito a tutto il vento possibile. A me basta sapere che quei due ragazzi abbiano capito in una manciata d'anni ciò che molti di noi stentano a comprendere nell'arco di un secolo: il valore della spregiudicatezza; altro non mi occorre.

In fondo senza spregiudicatezza è impossibile scrivere, non è così?
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