Brutti pensieri al ritmo del dialetto
I racconti di Alcide Pierantozzi

Brutti pensieri al ritmo del dialetto I racconti di Alcide Pierantozzi
di Alcide Pierantozzi
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Domenica 9 Agosto 2015, 16:08 - Ultimo aggiornamento: 16:11
La parannanza



A quindici anni, mentre tornavo dal campo di grano, in mezzo alla strada vedetti la regina Elisabetta d’Inghilterra.

Steva vestita rilussata proprio come ’na regina, naturalmente. E mi dicette: “Quant’è belle ’stu settembre! Sta venendo bene l’aratura de lu grano?”. “Bbenissimo, regina” ci risponnetti io, e quando arrivai a la casa raccontai la storia a tutti quanti. Siccome che nisciuno mi credeva, e siccome che nonno Umberto diceva che mi ero bevuto lu vino di Montori e stavo ’mbriaco come una votte, mi disperai e mi chiusi dentro lo stabbio de li purci, che quell’anno era vuoto perché quattrini non ne tenevamo.

“Ninetto, Nine’, iescia. Vienn’ a magnà!” mi chiamava notte e dì la buon’anima di mammà, piangendo e strappandosi li capilli.

Papà veniva a trovarmi la sera, apriva la porta della stalla e mi guardava torvo come ’nu satanasso, sputava per terra e se n’asciva.

“Nine’, io ti credo che hai visto alla regina d’Inghilterra” mi dicette un giorno zia Valentina. “Io ti credo come credo a tutti i santi del paradiso” dicette stendendomi un secchio di pommadore crude e un pezzo di parmigiano.

Siccome che la fame non mi veniva proprio, e in capo a ’na settimana ero diventato secco come uno spino, mi presero a forza e mi portarono dal dottor Cameli di Ripatransone.

“Che succede, Ninetto? Dove l’hai vista questa regina?”.

“In mezzo a la strada, dottò”.

Allora mi portarono a Civitanova, a lu policlinico, e mi insacchettero ’nu pigiama a righe e mi mettettero a stendere dentro un letto bianco. Io scaggiavo come un mulo, perché non ci volevo stare. Tiravo le coperte per terra e urlavo ’nda ’nu matto.

Mammà veniva una volta al mese, si faceva il segno della croce e mi diceva: “Fatti forza, guagliò” perché da quando mi avevano ricoverato tenevo la testa piena di brutti pensieri.

Surgi, scirpenti, pantafaghe, lupi mannari e mazzamarielli. Li vedevo sempre che mi venivano a lu capo del letto e dicevano “uuuuuuu, uuuuuuu”.

Zia Valentina veniva pure lei una volta al mese, vestita co’ la parannanza delle pulizie. Mi stenneva ’nu Ferrero Rocher e si massaggiava la saccoccia della parannanza. “Ninè”, mi diceva, “la vedi la saccoccia della parannanza? Ci vogliamo insaccare tutti i brutti pensieri? Ninè, mettiamo i brutti pensieri dentro la saccoccia della parannanza di zia tua?”.

Allora io pigliavo co’ la mente tutti li surgi, li scirpenti, le pantafaghe e li lupi mannari e con tanta forza li spignevo dentro la saccoccia della parannanza di zia Valentina. Essa si faceva una bella risata, diceva che mo’ mi ero liberato, e infatti io mi sentivo sempre chiù leggero.

Questo succedeva tutti li mesi dell’anno, e io sempre che aspettavo a zia Valentina. Finché un mese non è chiù venuta e io l’ho cercata, l’ho tanto cercata, ma mi hanno detto che non stava troppo bene e che si era messa a letto da tanti giorni.

Poi è venuta mammà e mi ha detto che a zia Valentina ci mancavano poche settimane di vita, che il brutto male se la stava mangiando dentro allo stomaco, proprio sotto alla saccoccia della parannanza.

Qualche giorno dopo rivedetti la regina Elisabetta d’Inghilterra che veniva a portarmi le medicine al posto dell’infermiera, e mi dicette, passandomi una pastiglia scura: “Ninè, hai visto che belle dicembre? Tra qualche giorno è Natale, Ninè. Nasce il Bambinello, Ninè”.

Però, mentre che la guardavo, a questa regina, mi sono accorto che pareva proprio zia Valentina e che, pure se era tutta pettinata, al posto del vestito rilussato portava la parannanza e rideva, rideva con tutti quanti li denti.

Vennero a prendermi di notte, firmarono un permesso e mi mettettero lu vestito scuro della cresima, che oramai mi andava corto.

Durante lu funerale stevo contento come ’na Pasqua, perché dentro a me pensavo: “O brutte pantafaghe, o brutti surgi, o brutti mazzamarielli, mo’ non solo ve ne state dentro la saccoccia della parannanza di zia Valentina, ma pure sotto terra ve ne state”.







La ponta delle scarpe



“Dài che mo’ li vicini pensano a male, Pasquà. Quanto ci metti?”.

“E un secondo, commara Felicè” risponnette lu scarparo. “Fammi ripassare lu tacco”. ’Nzuppette la spugna dentro la vernice nera e splàppete splàppete, la sfrechette sopra la suola.

“È meglio che ti sbrighi, Pasquà. Quelle so’ serpi avvelenate, quelle so’ vipere e pensano a chissà che”. Felicetta iette alla finestra. Aprette. Guardette. “Arrivo! datemi n’addru secondo” gridò.

“Quelle, le vicine di casa tua, manco ti pensano, Felicè” dicette lu scarparo. “To’, ’spetta ca s’asciugano bene però” dicette posando le scarpe della vecchia su lu bancone, alla rovescia.

“Oh!… benissimo, così pozzo andare. E speriamo che è l’ultima volta che vengo. Pure l’altra volta pensavo che era l’ultima volta e invece ha battezzato la figlia di Marilena, e per la messa che facevo, non me le mettevo queste?” dicette sventolando le scarpe, ancora fresche di tintura.

“Cinque euro come sempre, Felicè. Ma la suola, tu si l’unica qua a Colonnella che se fa pitturà la suola. Ma pecché?”.

“Appunto perché quelle, le vicine, sparlano” dicette tirando fuori il borsello. Stennette li cinque euro. “Quelle, lu giorno che io me moro, quando che mi vedono tutta vestita rilussata dentro la cascia, metti che vedono che la suola delle scarpe è zozza o ’mbracchiata?

E che dicono, Pasquà, che ho camminato con queste scarpe?

E che dicono che so’ ’na pezzente, Pasquà?”.







Neretta



Oramai il senso di colpa mi ha acciso.

’Na vodda, quando ero giovane, stevo sempre contento come una pasqua. Mi ammattivo dietro a tutte le femmine, andavo appresso a tutte quante e aspettavo sempre chella precisa per me. Tenevo ’na Mercedes Pagoda e ci giravo sopra al lungomare di Martinsicuro e Alba Adriatica.

Mo’ penso che forse era meglio se mi sposavo e se davo un po’ meno retta alla buonanima di mammà.

“Rosita è ’na bella guagliona, ma tene lu dente accavallato.

Marina è ’na bella fantella, ma tene lu tic che gli fa sbattere l’uocchie.

Paoletta è ’na bella zaotta, ma solo di faccia, che è corta come ’na tapanella”.

A mammà non gliene andava bene nisciuna, così gli anni so’ passati e io so’ rimasto solo come un prete.

A un certo punto, dieci anni fa, la solitudine era diventata insopportabile. Allora so’ ito a lu canile di Offida e mi sono scelto la cagna chiù belletta, ’na bastardina. L’ho chiamata Neretta, per quanto era nera. Come il carbone.

A lu letto, a lu ciardino, a lu bagno, a la stalla, Neretta sempre appiccicata mi è rimasta, per dieci anni.

“Neretta bella, dove vai?

Neretta bella, tieni l’osso.

Neretta bella, dammi ’nu vasetto”.

Tenevo una casa sulla curva di San Martino e tutte le sere, quando tornavo dal bar dentro alla vecchia Pagoda scassata, Neretta mi aspettava all’inizio della curva.

Mo’ dico che il senso di colpa mi sta ammazzando, ma penso pure che non potevo ammazzare a Neretta, che era l’unica amica mia. Meglio che il senso di colpa accide a me.

Sto qua, sopra al letto dell’ospizio San Giuseppe, a San Benedetto.

Ripenso a quella sera di giugno, a quando ho girato la curva e in mezzo alla strada ci stava quel guaglione colla bicicletta.

Certo, io lo potevo pure evitare, bastava che giravo a sinistra, dalla parte de lu cancello di casa. Là, però, ci stava Neretta che mi aspettava.

Mi aspettava, scodinzolava, perché quella riconosceva a un chilometro il motore della Pagoda.

Il cuore mi fa tricchete e tracchete se ripenso a quel guaglione che volava insieme alla bicicletta, e sto male.

Però voi mi capite, io non potevo girare a sinistra, io proprio non potevo…
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