"Cara nonna, mi fiderei
c'è qualcosa oltre la vita"

"Cara nonna, mi fiderei c'è qualcosa oltre la vita"
di Alcide Pierantozzi
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Domenica 27 Marzo 2016, 15:39
Un paio di anni fa, leggendo lo straordinario Oltrepassare di Emanuele Severino (un libro per certi versi in tema con la festa di oggi), mi sono imbattuto in un’immagine molto suggestiva usata per descrivere ciò che appare all’uomo dopo la morte. L’immagine era questa: il giorno del venerdì santo e il giorno di Pasqua dopo la nostra morte ci appariranno insieme, contemporaneamente. Siamo nella metafora, ma siamo anche al di là della metafora. Lo scopo di Severino è quello di mettere al centro della scena metafisica, accanto al momento del dolore di Cristo in croce, quello della felicità della risurrezione. Che cosa significa? Proviamo a rifletterci un attimo.

La prima spiegazione risponde a una domanda quanto mai banale, la domanda che ci facciamo tutti quanti ogni giorno, e soprattutto nei giorni di quiete delle festività: che cosa ne sarà di tutto il nostro dolore? Chi ricompenserà i malati, i sofferenti, le persone sole, dal dolore che hanno subìto nella loro vita? La risposta di Severino sembrerebbe essere “nessuno”, perché il dolore della crocifissione continua ad esserci, ad apparire, a mostrarsi, ma insieme -e vale la pena sottolinearlo - insieme alla felicità della Pasqua. Qual è, allora, il senso di un dolore che si mostri congiunto alla felicità se non quello di presentarsi come superato, e quindi sconfitto? Ora, siamo davvero molto distanti dall’immaginario cattolico, e potremmo dire che almeno in questo caso la filosofia fa sconti a tutti: la felicità della Pasqua è destinata a chiunque, non solo ai buoni e ai giusti, non solo ai sofferenti. Sappiamo però che, per chi ha sofferto, la festa più gioiosa è quella della guarigione, il premio più grande è la serenità che si attraversa nel ricordo della malattia lontana. 

Scrivo queste righe in ricordo di mia nonna, che ogni tanto mi chiedeva: “Ma chissà se ci starà ’ca cusa dopo la morte? Tu che hai studiato, lo sai?”. Naturalmente no, no lo sapevo. Tra l’altro, a vent’anni, i miei studi non erano esattamente all’altezza di una domanda di questo tipo. Però avevo ogni giorno a che fare con Dante e con Manzoni, con Platone e con Sant’Agostino, con Leopardi e con Shakespeare. Come la gran parte di chi studia, ignoravo la grandiosità del contenuto di ciò che mi passava sotto gli occhi. Non è forse quello che facciamo anche in un giorno di festa come quello di oggi - che, per chi è cattolico, è un giorno ancora più importante del Natale? 

Tutto quello che attraversiamo ci sfugge. Attraversiamo il dolore, e ci sfugge. Ce ne sfugge il senso. Siamo troppo presi a curarci, a preoccuparci del futuro, a elucubrare sulla precarietà della nostra vita: ma, per assurdo che possa sembrare, la tangibilità della sofferenza ci sfugge. Attraversiamo la festa e ci sfugge: quanti andranno a messa oggi senza pensare neppure per un momento al fatto che stiamo ricordando, e celebrando, un uomo concretamente risorto dalla morte? Alzi la mano chi si fermerà a riflettere anche solo per un attimo sull’eventualità della propria risurrezione, o della risurrezione di un padre, di un figlio. Gli adulti hanno una capacità incredibile di considerare vane e sciocche le domande essenziali.

Quand’ero piccolo frequentavo molto la chiesa e cantavo anche nel coro. A Pasqua ero ossessionato da una domanda: ma dove va Gesù una volta che è risorto ed è uscito dal sepolcro?

Ignoravo il momento dell’ascensione al cielo, quindi mi dicevo che secondo la logica, essendo Gesù immortale, doveva trovarsi ancora da qualche parte sulla terra. Ma dove? Una mia amica mi disse: “Sicuramente dopo la risurrezione sarà morto un’altra volta”, gettandomi nello sconforto. Non capivo perché mai uno dovesse risorgere per poi morire di nuovo. Sono domande che solo un bambino può farsi, come quando un mio amichetto di scuola chiese alla maestra di religione, lasciandola di stucco, perché mai San Giuseppe e la Madonna avessero dovuto ricorrere al bue e all’asinello per scaldare il bambino. Non potevano denudarsi e coprirlo con i loro abiti pesanti? Che razza di genitori erano?

Ai bambini non sfugge il contenuto del dolore (“perché mi fa male la testa?” domandano, “perché adesso è passato?”) ma non sfugge nemmeno il contenuto della festa. Anziché riempirli di compiti per le vacanze, gli insegnanti dovrebbero andare a lezione di contenuto da loro durante il periodo delle festività, Pasqua o Natale che sia, e così imparerebbero a togliersi le maschere degli adulti. In fondo, non devo essere io a ricordare che un uomo è bambino sempre, per tutta la vita: a un certo punto si mette la maschera dell’adulto ma torna bambino tutte le volte che scoppia a piangere e la sua faccia si contrae, o quando ride sguaiatamente, o quando si innamora. Poi diventa vecchio e allora torna definitivamente bambino, nessuno lo giudica più. Negli anni ignora il contenuto di ciò che attraversa, e per non sentirsene schiacciato lo irride, se ne prende gioco, anche se la sua vita non fa che parlargli di quel contenuto, anche se quel contenuto non fa che scintillargli nella coda dell’occhio come un’allucinazione ipnagogica. Solo da vecchi, vale a dire una volta tornati bambini, chiedono soccorso quasi per gioco ai loro nipoti: ci sarà qualcosa dopo? Il che equivale ad ammettere di aver trascurato fino a quel momento il nucleo centrale di ciò che hanno attraversato.

Che cosa risposi a mia nonna quel giorno?
“Guarda questi libri” le dissi. Ce n’erano almeno una decina sparsi sul tavolo: l’Iliade, l’Orestea di Eschilo, un volume di scritti di Albert Einstein, Essere e tempo di Heidegger, addirittura un vecchio numero di Dylan Dog. “L’unica cosa che posso dirti, nonna, è che tutti questi libri dicono di sì, che ci sarà qualcosa. E io, fossi in te, mi fiderei”.
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