ANCONA Una violenza senza appello: il sociologo Carlo Carboni cerca di decodificare l’orrore di Civitanova. L’omicidio del nigeriano, finito a mani nude da un operaio salernitano tra l’indifferenza nel pieno centro di Civitanova, irrompe in rete, dove si ribalta l’ordine dei fattori. L’80% delle reazioni generate sui social del Corriere Adriatico sono di segno opposto rispetto all’apatia dell’accaduto: se si fosse intervenuti, quella morte si sarebbe potuta evitare. A chi ha la verità in tasca, segue un 20% di chi ritiene che a immobilizzare sia stata la paura, l’effetto-Willy (Monteiro Duarte, ndr), il terrore di rimanere coinvolti. Solo una componente residuale dei commentatori online rimanda al razzismo.
Le pieghe
Il prof della Politecnica procede per gradi: «Due fattori per un unico evento. È stato un episodio mostruoso, a sfondo razziale, e l’omicida era sottoposto al Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio per problemi psichiatrici». Carboni va nelle pieghe più orride della tragedia: «Bastonato e poi ucciso a mani nude, quel giovane uomo. Una violenza senza appello che dimostra che c’è anche un movente razzista: quell’azione è stata un voler ribadire la propria superiorità». Interseca i due piani con un terzo, il docente di sociologia: l’indifferenza. «Nel 2009 pubblicai “La società cinica”. Il cinismo di colui che anziché intervenire preferisce guardare, filmare: teme che, intromettendosi, potrebbe fare la stessa fine. Non è una reazione immorale, ma amorale». Aggiorna il corollario: «È un cinismo di fondo che, all’epoca dei social, va a finire sul web e la ripresa dell’uccisione diventa virale e in qualche modo rende protagonista». Crea il nesso tra panico e impassibilità. «C’è sempre meno responsabilità sociale. Dobbiamo riflettere sul fatto che queste storie abbassano la soglia di fiducia tra le persone. Pensiamo di proteggerci invece ci danneggiamo».
La successione
Allarga lo spettro del “senza appello”, il prof: «Le persone sono tutte dei quaquaraquà quando intervengono a posteriori». Immagina i passaggi d’una successione ideale, umana. «Se fossimo stati presenti, a parte il primo minuto di spaesamento, poi si sarebbe dovuto decidere il da farsi. Mettersi d’accordo con altre due, tre persone, agire». Torna a battere sui pregiudizi, razziali e di genere. «Se fosse stato picchiato a morte un italiano sarebbe andata alla stessa maniera?». Modifica l’angolazione: «È come quando si assiste a una lite di coppia, con la donna che viene schiaffeggiata. C’è chi guarda, passa e commenta: è una questione privata». Senza appello.
Osserva il moto della sequenza, Umberto Volpe.
Lo choc
Stefano Padovano, criminologo, in cattedra all’Università di Genova e alla Cattolica di Milano, sfronda: «È più facile filmare che staccarsi da un gruppo e provare a fermare l’aggressore». Va con l’ipotesi: «Siamo certi che sarebbe andata così se la vittima non fosse stata uno straniero? Ottanta persone su cento avrebbero risposto: è un fratello. Il razzismo è il primo elemento da esplorare. Non voglio demonizzare i civitanovesi, la stessa cosa sarebbe accaduta nella Bologna rossa». È perentorio: «Fuori dai luoghi comuni, il fenomeno riguarda tutte le città». Il tripudio di commenti? «Più semplice essere leoni da tastiera con la soluzione in tasca. La realtà è altra cosa». È pelle viva, che brucia. «La paura? Ci sono molti modi di intervenire. Anziché filmare si può chiamare il 112. Non c’è assunzione di responsabilità». Aggancia un link: «La sicurezza urbana viene sempre più spesso affidata a strumenti tecnici e non al recupero». Si muove sul suo terreno, ardito: «Ora non si può dire che l’aggressore è borderline, si doveva fare prima». È sempre il cinismo che alimenta l’indifferenza che nutre il mancato senso di responsabilità.