Marche commissariate, l'ex governatore Spacca: «Siamo poco uniti: è la mia sconfitta. Ci ho provato nella vita precedente»

Gian Mario Spacca, già presidente della giunta regionale delle Marche
Gian Mario Spacca, già presidente della giunta regionale delle Marche
di Andrea Taffi
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Sabato 29 Maggio 2021, 02:05 - Ultimo aggiornamento: 5 Giugno, 22:31

ANCONA - Presidente Gian Mario Spacca: sei partiti e tre Confindustrie commissariate. Cosa sta succedendo nelle Marche?
«Le leadership di una comunità, specialmente regionale, è il risultato dei flussi culturali che passano dentro una comunità. Non di patrimonio genetico. Le racconto una storia. Qualche anno fa, incontrai Simon Perez, premier israeliano. Mi chiese da dove venissi. Gli dissi: dalle Marche, una piccola regione italiana, un milione e mezzo di abitanti? E lui rispose: non vuol dir niente, quanti pensa che siamo in Israele? Sette milioni. E aggiunse: la grandezza di una regione è fatta dalla coesione della comunità (che deriva dall’identità) e dalla qualità del suo capitale umano (scienziati, ingegneri, docenti ecc.). Da questi elementi derivano le leadership». 

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Trasliamo i concetti da noi.
«Nella mia precedente vita il fine principale del governo è stato fare di tante Marche una Regione. Ma questa regione è un’altra cosa: gelosie, rivalità, campanilismo.

La balcanizzazione dei partiti è frutto di questo carattere, Perez diceva ancora che...».


Ma Israele ha votato quattro volte negli ultimi due anni senza creare governi stabile.
«Ma loro hanno una leadership forte di comunità. Il problema delle Marche va rovesciato. Non serve la figura messianica ma la coesione. Gli israeliani sono leader in tanti campi: medico, tecnologico e altri ancora. Quella è la leadership che conta, non la leadership narcisistica del leader solitario».

 Dietro al miracolo marchigiano degli anni 80 non c’è stata una vera coesione.
«Il boom si fondava su distretti produttivi e fabbriche, su una cultura essenzialmente manifatturiera, che ha diffuso benessere ma non ha alimentato visioni e leadership. C’era forse bisogno di esperienze più articolate». 


Quattro università non sono state elemento di ricchezza?
«Allora gli atenei erano ancorati a una visione di tipo più teorico senza sviluppare le applicazioni nella realtà».


E la terza missione?
«Le università nella loro turris eburnea, non contaminandosi, sono state un ulteriore fattore che non ha arricchito la vita comunitaria. Ora però le cose stanno cambiando: i nuovi leader non nasceranno dalla metalmezzadria, ma proprio dalle università».


La fondazione Merloni ha spinto su questo paradigma fondando Hamu, l’Hub Abruzzo Marche Umbria che riunisce università e imprese di tre regioni confinanti. Perché?
«Proprio per creare un’alleanza tra scienza ed impresa ed arricchire il capitale umano. Oggi c’è crisi di leadership e non nascono imprese. Allora bisogna porsi la domanda: dove emerge la nuova capacità di intraprendere? Dentro l’università, dalla conoscenza: Hamu è la sfida di un’alleanza per fare nascere nuove iniziative. Attraverso ad esempio la selezione delle idee e dei brevetti che vanno trasformati in imprese, anche attraverso il contributo di strumenti finanziari innovativi, meno speculativi ma a capitale paziente. Questa è Hamu».


E allargare la sfida in una dimensione interregionale aiuta? 
«Una delle filosofie di Hamu è passare dalla competizione alla co-petizione. Per la crisi che stiamo vivendo per le dimensioni in cui siamo immersi non è più possibile essere nè gelosi, rivali o campanilisti. Bisogna saper collaborare. Nell’ultimo anno il Corriere Adriatico ha messo l’accento su un mare di problemi infrastrutturali che non si risolvono se non sei in grado di rappresentarli su una base geografica adeguata che coinvolge anche altre regioni».


Proviamo a tradurre guardando in prospettiva: dovremo soffrire ancora.
«Oggi tutti soffrono. Se siamo fortunati può accadere come negli Anni 70-80: che singoli marchigiani si vedano promossi dalle organizzazioni in cui operano a livello nazionale».


Si riferisce a Merloni presidente di Confindustria e a Forlani presidente del consiglio?
«Anche ad altri e succede anche oggi: il direttore generale della Cna nazionale è Sergio Silvestrini di Sassoferrato. E c’è un vice presidente nazionale di Confindustria Piccola industria, Diego Mingarelli, che tra qualche settimana potrebbe divenire presidente». 


A noi serve altro, servono leader locali, magari un ministro nel governo Draghi.
«Ma per riuscirvi serve una comunità regionale coesa. Si soffrirà finché quella dimensione non emergerà. A meno che la dimensione regionale passi in secondo piano: potrebbe anche accadere che la stagione del regionalismo si eclissi verso un sistema più centralistico. Vedi Next Generation». 


La principale colpa della stagione del centrosinistra, alla guida della Regione negli ultimi 25 anni, è stata quella di non aver saputo creare una comunità coesa?
«La politica è il risultato della ricchezza di una comunità. Inutile fare l’inno delle Marche se dietro non c’è una comunità coesa. La colpa non è solo di una classe politica ma di una comunità che non riesce a riconoscersi come tale». 


L’inno delle Marche però l’ha inventato lei.
«Infatti questa è stata la mia più grande sconfitta. Le tante Marche sono state più forti del governo che presiedevo».


Tiraboschi, Merloni, Forlani e Baldassarri vanno riclassificate in storie fuori dall’ordinario.
«Scalate romane di figure che vivevano una dimensione romana forte. E quando si diviene leader nazionali ci si deve preoccupare dell’associazione, categoria che ti ha eletto, meno delle Marche».


Il caso Baldassarri-Quadrilatero non dice questo.
«Quadrilatero c’era già nel programma di governo di Prodi nel 1998: la forza di Baldassarri, da presidente del Cipe, è stata portare questo progetto al primo posto nella lista dei finanziamenti. Ma era già una figura forte a Roma. Non per la forza della spinta comunitaria della nostra regione».

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