«Datemi metà stipendio o vi licenzio». Caporeparto di un’azienda arrestato a Recanati

La polizia
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di Benedetta Lombo
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Martedì 29 Ottobre 2019, 03:05 - Ultimo aggiornamento: 11:03

RECANATI - «Se non mi date metà dello stipendio trovatevi un altro lavoro». È suonata più o meno così la minaccia che un dipendente avrebbe rivolto a due braccianti e che gli è costata un arresto per estorsione aggravata. Ieri mattina però l’uomo ha dato una versione diversa dei fatti al giudice che ha convalidato l’arresto e lo ha rimesso in libertà. La vicenda risale a qualche giorno fa ed è maturata all’interno dell’azienda agricola “Girasole” di Recanati, finita sotto controllo giudiziario lo scorso settembre a seguito di un’indagine per l’ipotesi di reato di caporalato. L’arrestato è un pakistano che da anni vive in Italia. Il giovane vive a Sambucheto di Recanati e lavora per il Girasole. Lì svolge mansioni di caporeparto, è colui che fa da tramite tra il titolare dell’azienda e i braccianti. È lui che li porta nei campi la mattina con il pulmino, è lui che li riporta a casa ed è sempre lui che controlla quante ore lavorano, registra eventuali permessi e fa da tramite con il titolare per eventuali “prestiti” di denaro. Nella ditta sono occupate decine di persone. Due di questi, africani, però alcuni giorni fa si sono rivolti alla polizia. Agli agenti hanno riferito che il pakistano li avrebbe minacciati: se non gli avessero consegnato il 50% dei salari, o comunque, se non avessero consegnato le cifre richieste, lui avrebbe fatto perdere loro il lavoro. I due però si sarebbero rifiutati di dargli i soldi e lui li avrebbe lasciati a piedi. Poi venerdì scorso il blitz.

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I due africani si sono accordati con il pakistano per la consegna dei soldi, ma al passaggio del denaro sono intervenuti gli agenti che hanno arrestato l’uomo. Posto agli arresti domiciliari, ieri mattina il pakistano è stato accompagnato in Tribunale per l’udienza di convalida. Assistito dall’avvocato Roberta Ippoliti, ha raccontato al giudice Claudio Bonifazi la sua verità. Il dipendente dell’azienda ha spiegato che spesso i braccianti avevano bisogno di mandare più soldi all’estero, per un familiare che si ammalava o per altre esigenze, oppure dovevano fare acquisti particolari, e quando ciò accadeva chiedevano a lui di anticipare loro delle somme. Lui appuntava tutto su un quaderno che poi portava al proprietario e se quest’ultimo dava l’ok, lui consegnava gli anticipi. I soldi poi dovevano essere restituiti con la successiva busta paga. Se gli importi anticipati erano bassi, restituivano tutta la somma, se invece erano consistenti la restituzione avveniva a rate. Nel caso dei due braccianti africani, il pakistano si è giustificato riferendo che le somme che i due gli avevano consegnato il giorno dell’arresto erano soldi prestati e che avrebbero dovuto restituire. Non solo. Il pakistano avrebbe detto anche altro, ovvero che i due braccianti dopo aver ottenuto l’anticipo si erano rifiutati di restituirlo e lo avrebbero minacciato di fare attenzione altrimenti lo avrebbero mandato in galera. Ieri il pm Rosanna Buccini ha chiesto la detenzione carceraria nei confronti del pakistano, in subordine gli arresti domiciliari, ma il gip ha convalidato l’arresto ritenendo non fosse necessaria l’applicazione di alcuna misura e lo ha rimesso in libertà.
In passato l’azienda era finita nel mirino della procura. L’indagine, per l’ipotesi di reato di caporalato, è condotta dai carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro di Macerata e dalla Compagnia di Civitanova che a fine agosto dello scorso anno avevano iniziato a monitorare l’attività di alcuni lavoratori impegnati in campi agricoli a Montelupone e Recanati e avevano accertato che i braccianti lavoravano in alcuni casi senza retribuzione e senza riposo settimanale, con giornate lavorate completamente in nero, a volte per 12 ore per una paga di cinque euro all’ora.

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