Vincenzo De Vivo, direttore della stagione lirica del Teatro delle Muse, vuole inquadrare per i lettori l’originale operazione?
«Nel 1981 Brook volle fare una personale riflessione sull’opera più emblematica del repertorio francese, e operò a cuore aperto la Carmen di Bizet. Il risultato è una decostruzione dell’opera in quattro atti e la ricostruzione di una vicenda secondo una scansione degli avvenimenti più vicina alla novella di Mérimée. Spogliò la Carmen di tutti gli aspetti folclorici e dei momenti corali, e distillò le melodie dei quattro personaggi principali, che volle conservare ma in un ordine diverso. La nuova partitura di Constant va nella stessa direzione intima ma non intimistica del lavoro di Brook, affidando a 15 elementi solisti il tessuto musicale, su cui fioriscono arie e duetti dei quattro protagonisti».
Brook è l’inventore degli spazi disadorni, attua sul palco un suo minimalismo teso all’essenzialità e alla sottrazione degli elementi scenici. Che riscontro ha nello spettacolo delle Muse questo adattamento bizetiano da parte del regista?
«Ho avuto la fortuna di assistere in passato alla “Tragédie” messa in scena da Brook al Teatro Argentina di Roma. Lì lo spazio era inventato in una platea libera dalle sedie e coperta di sabbia: completamente vuoto. È questo il punto di partenza della regista del nostro spettacolo, Francesca Lattuada, che propone in palcoscenico un vuoto assoluto, dove il palcoscenico rosso si accompagna a una parete di specchi. È un linguaggio diverso da quello di Brook, è un teatro metafisico, ma anche una tragedia in senso greco».
Date le premesse, come definirebbe questo lavoro alle Muse sotto il profilo drammaturgico?
«La regista definisce la tragedia e la sua protagonista come un ossimoro, una corrida metafisica tra amore e morte. Carmen non è una gitana, ma l’archetipo delle maghe del mito, sorella di Medea e di Circe. Francesca Lattuada usa il fuoco del flamenco e il gelo del Teatro Nô giapponese: una fiamma che brucia in una sfera di cristallo».
I momenti canonici di canto in questa elaborazione operistica sono appannaggio delle quattro voci protagoniste: Carmen, Don José, Escamillo e Micaela. I tre ruoli parlati di Zuniga, Lillas Pastia e Garcia sono affidati ad un unico attore. Rispetto all’originale, siamo di fronte a una variazione del contesto esecutivo?
«Sicuramente siamo di fronte a una rappresentazione alle Muse con forti crismi di originalità. Dove la drammaturgia musicale non è mai tradita, ma la sfera rappresentativa si pone su un piano diverso dalla pièce nata negli anni ’80. È uno spettacolo contemporaneo che si aggrappa a radici ancestrali».
Come le è venuta l’idea di inserire in cartellone questa variazione sul tema di un celebrato melodramma?
«Quest’anno sembrava particolarmente interessante utilizzare la disponibilità di due artisti italiani che lavorano all’estero. Abbiamo quindi pensato che i titoli giusti da affidare a Luca Silvestrini e a Francesca Lattuada fossero “Il flauto magico” e “La tragédie de Carmen”, anche per rinnovare il repertorio di un teatro che in poco più di vent’anni ha saputo ritrovare autori e opere che non erano mai stati mostrati al pubblico anconetano».