Moni Ovadia racconta Jannacci
nell'aula magna della Politecnica

Moni Ovadia
Moni Ovadia
di ​Lucilla Niccolini
2 Minuti di Lettura
Giovedì 12 Maggio 2016, 22:35
ANCONA -  Ovadia e Jannacci "insieme". Il titolo dello spettacolo di Moni Ovadia che il 13 maggio sigla Your Future Festival in aula magna d'ateneo alle 21,30 è "Il nostro Enzo. Ricordando Jannacci".

Moni, perché proprio Jannacci?
Un grande interprete, un genio. Quando il mio amico pianista Alessandro Nidi mi ha proposto questa rivisitazione, sono riandato con la memoria alla Milano che ho conosciuto quando da bambino sono arrivato lì dalla Bulgaria. C'erano solo le macerie, nel '49. Ho vissuto nella Milano delle periferie, quella più autentica: dopo i compiti, ero sempre per strada, nella Milano operaia e delle sperimentazioni musicali giovanili.

C'era anche Jannacci?
Cantava la povera gente che io ho frequentato da ragazzo, nei migliori anni della mia vita. Un personaggio insolito, con quella sua faccia da poverocristo, quando invece veniva da una famiglia borghese, che cantava i povericristi.

Ai Navigli?
I Navigli di una volta... mica la cloaca consumistica di oggi. Ricordo Vicolo dei Lavandai, dove il popolo aveva storie da raccontare, sapeva ancora il vernacolo...

Ma forse li rimpiange perché allora era giovane?
No. Milano è stata davvero così fino alla fine degli anni Settanta. Allora frequentavo l'università e c'era un grande fervore, proprio lì, di sperimentazione culturale... Io non sono passatista: allora si fece qualcosa di grande. Dopo, è arrivato Craxi, e ha snaturato il socialismo.

Il suo successo è venuto più tardi, no?
All'inizio degli anni Novanta, con "Oylem Goylem" ("Il mondo è scemo" in lingua yiddish): facemmo scoprire all'Italia la musica klezmer e l'umorismo ebraico. Fu Giovanni Raboni, sul Corriere, a darmi visibilità. Forse all'epoca venivo a colmare un vuoto, a far conoscere una cultura fino ad allora ignorata, quella dell'Est europeo. Da allora ho avuto pubblico di ogni tipo.

Le ragioni della sua durata nel tempo?
Forse perché non ho mai derogato dai miei principi, non mi sono venduto.

Sente dunque di assomigliare a Jannacci?
Abbiamo avuto percorsi paralleli, a scoprire e a rivelare il mondo degli uomini fragili, sradicati, emotivamente e sentimentalmente esuli... E abbiamo ricercato le rispettive radici, il linguaggio delle origini, la sensibilità che si perde nel mondo consumistico, come avvertiva Pasolini: ricchezze inenarrabili, valori delle genti italiche ed europee. Per questo, nello spettacolo rievoco Carlo Porta, ma anche il siciliano Buttitta e il romano Belli. E a Jannacci intendo restituire i suoi meriti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA