Femminicidi, l'opinione di Ernesto Menicucci: ora noi uomini diciamo basta

Femminicidi, l'opinione di Ernesto Menicucci: ora noi uomini diciamo basta
di Ernesto Menicucci
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Mercoledì 22 Novembre 2023, 12:47 - Ultimo aggiornamento: 23 Novembre, 06:47

Cari amici, colleghi, fratelli, in sintesi cari uomini, questo articolo è, come direbbe Luciano Ligabue, “dedicato a noi”. 


A tutti noi, ma soprattutto a quelli che, nei confronti delle donne, si pensano e si percepiscono come gentili, premurosi, amorevoli, ovviamente non violenti, meno che meno stupratori o assassini. Perché adesso, dopo il punto di non ritorno della morte di Giulia Cecchettin, è arrivato davvero il momento di dire basta. Una volta per tutte, una volta per sempre. E non perché ci siano femminicidi più odiosi di altri, o perché ci sia una classifica dell’orrore o del dolore. È solo che, dopo vicende come questa, serve uno scatto d’orgoglio, una svolta. Perché vedete, cari amici uomini, è inutile girarci intorno. 
Il problema della violenza contro le donne, che ci piaccia o no, siamo noi. Noi uomini. E solo noi possiamo risolverlo. Ed è un problema che ci riguarda tutti. Non solo i Filippo Turetta, il killer di Giulia, cioè giovani uomini criminali; non solo gli Ivano del film di Paola Cortellesi, interpretato da Valerio Mastandrea, cioè padri-mariti-padroni. Tipologie accomunate da un aspetto: l’idea che la donna sia un possesso, una nostra proprietà e che non debba brillare di luce propria, magari per non mettere noi, piccoli uomini, in cattiva luce.
LE BUONE INTENZIONI
Ci riguarda tutti, anche quelli che, leggendo le drammatiche cronache di questi giorni oppure uscendo dalla proiezione del film in sala, avranno pensato: «Ma io non sono come Turetta, ma io non sono come Ivano». Io non ucciderei la mia ex o la mia fidanzata, non le chiederei di rinviare la laurea per non farmi sentire inadeguato. Io non direi a mia moglie «manco la serva sai fare», come dice il Mastandrea del film. 
Noi, anzi, siamo vicini alle nostre fidanzate se si laureano, ne condividiamo i successi, gioiamo con loro e per loro. E noi, nostra figlia, l’abbiamo mandata a scuola, e siamo pronti a svenarci per farle fare l’università, il dottorato, il master. Altro che la terza media che Delia riesce a finanziare alla figlia a suon di lavoretti e piccole “creste” sulle paghe ricevute. E chi starà con lei, dovrà essere alla nostra altezza, dovrà essere come noi. Un ragazzo gentile, educato, premuroso. Non un Filippo Turetta ma uno che ti riporta a casa la sera, che ti apre la portiera della macchina per farti salire e non il portellone per buttartici dentro, sanguinante e agonizzante. Un ragazzo giusto a cui consegnare nostra figlia, quando un giorno, a Dio piacendo, la accompagneremo all’altare. 
Siamo uomini illuminati noi. Siamo, noi sì, dei “bravi ragazzi”. Le nostre donne hanno un lavoro, e se non ce l’hanno hanno comunque il conto co-intestato con noi, pari in tutto, nella buona e nella cattiva sorte (si dice così, no?). Le nostre fidanzate sono libere di uscire da sole e se poi ci lasciamo, vabbè stiamo male ma ce ne facciamo una ragione. E sul lavoro le nostre colleghe le stiamo a sentire. Certo, alla fine decidiamo noi. Del resto siamo o non siamo i capi? Quando toccherà a loro decideranno loro. Anche se, di “loro”, in riunione, non è che ce ne siano poi tantissime. Boh, casualità.
I MESSAGGI SBAGLIATI 
Benissimo, adesso rileggete queste righe e provate a capire: dov’è l’errore? Perché l’errore c’è. Quasi in ogni parola o in ogni riga. Ed è questo, forse, il salto di qualità che bisogna fare. Per Giulia, per la Delia del film, per tutte le altre. 
Perché vedete, cari amici uomini, se la violenza contro le donne dilaga tutto intorno a noi forse la colpa è anche un po’ nostra. Di quelli educati, gentili, premurosi. Di quelli che non si rendono conto di quanto certi atteggiamenti siano superati, se non pericolosi. Anche quelli animati di buone intenzioni, di cui, si sa, è lastricata la via per l’Inferno. 
La violenza purtroppo dilaga, nella cronaca di tutti i giorni, nei videogames, come hanno sottolineato di recente sia la rassegna Lucca Comics, sia l’Università Milano-Bicocca secondo cui «sessismo e violenza nei videogiochi finiscono per sdoganare gli stupri», e nelle canzoni. E se una certa violenza è penetrata nella società fino a diventare così manifesta, allora forse il problema non sono le canzoni, o i videogames. Riguarda i maschi all’antica, ancorati alla vecchia idea del patriarcato Ivano-maniera, ma purtroppo anche nei giovani e nei giovanissimi, schiavi anche di altro: l’anaffettività, l’incapacità di provare empatia, di immedesimarsi nell’altro, nell’altra.
Il problema sta in tutte le volte in cui, nel calcetto del martedì, sotto la doccia ce ne siamo usciti con i racconti delle nostre prestazioni sessuali, con frasi tipo (scusate la volgarità) «me la sono fatta». 
Sta in tutte le volte che abbiamo esibito la nostra bella moglie/compagna/fidanzata in una cena di lavoro, perché dovevamo fare bella figura con il capo. In tutte le volte che, appunto, abbiamo pensato che il ragazzo giusto per nostra figlia fosse uno che la protegga, la porti a casa la sera. Uno a cui affidarla dopo di noi. Ma proteggere da cosa? Uomini che proteggono le donne da altri uomini. A questo siamo. E “affidare”, consegnare, si fa con un bene, un oggetto, non con una persona. E le nostre mogli, compagne, fidanzate, figlie non sono trofei, teste di alce impagliate e attaccate al muro, medaglie da esporre, magari con la gomitatina cameratesca al vicino di banco: «Hai visto che roba? Bella eh». 
Se le nostre colleghe hanno più successo di noi, il primo pensiero non può essere: «Chissà con chi sta o con chi è stata». E se la nostra fidanzata si laurea prima di noi, sarà stata più brava di noi. Non sta scritto da nessuna parte che abbiamo il diritto di “primeggiare”. Ma primeggiare rispetto a cosa?
I RETAGGI
È da qui allora che bisogna partire. In famiglia, nella scuola, nella società, sui posti di lavoro. Superare i retaggi del passato, tutti. Che non significa solo superare un’epoca in cui la donna doveva stare zitta, non rispondere, pensare alla casa, essere ubbidiente. O dire genericamente che si è dalla parte delle donne, salvo poi controllare i loro telefonini, tempestarle di telefonate, vocali o whatsapp, impedire loro (a volte esplicitamente, altre con la tecnica della manipolazione psicologica) di uscire per conto loro.
Bisogna, cari maschi gentili e premurosi, fare un salto definitivo. Capire che le donne non sono di nostra proprietà, non decidiamo noi per loro, non le dobbiamo affidare a nessuno. Metterci nei loro panni, nella loro testa, capire che è una vita che si sentono delle prede e vedono in noi dei predatori, che sono costrette a guardarsi intorno quando escono la sera, a percepire minacce ovunque si trovino, a sentirsi inosservate e inascoltate anche quando facciamo finta di ascoltarle o osservarle, ad avere il timore sia di parlare sia di non dire nulla. Superare gli steccati, invertire il senso del ragionamento. 
Una delle ultime è questa: c’è anche chi sostiene che la responsabilità di avere figli-killer sia delle madri.

Sarebbero loro a non aver insegnato “l’affettività” ai loro figli. E quindi siamo ancora al paradosso: la violenza contro le donne, fatte da uomini, sarebbe colpa di altre donne. E i padri, eventualmente, dove sono? Perché, seguendo il ragionamento, non la insegnano loro l’affettività? Perché, in negativo, esistono solo se sono dei violenti? Non spetta anche a loro l’educazione, anche sentimentale dei propri figli? Cari uomini, proviamo a cambiare il nostro punto di vista. Proviamo a capire (davvero) le donne. E forse allora, un giorno, non avremo più motivo di accompagnarle a casa per proteggerle da noi stessi.

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