Daniele Mario Capriotti (ct della Lettonia): «Ma per allenare in Islanda mi fecero tuffare nel mare gelido»

L'allenatore di volley marchigiano racconta la sua avventura sportiva

Daniele Mario Capriotti (ct della Lettonia): «Ma per allenare in Islanda mi fecero tuffare nel mare gelido»
Daniele Mario Capriotti (ct della Lettonia): «Ma per allenare in Islanda mi fecero tuffare nel mare gelido»
di Sandro Benigni
4 Minuti di Lettura
Sabato 6 Aprile 2024, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 11:32

Come può un giovane nerd diventare un affermato allenatore in campo internazionale? La storia del sambenedettese Daniele Mario Capriotti (attuale commissario tecnico della nazionale femminile di pallavolo della Lettonia) dimostra che tutto è possibile.

Lei è un vero e proprio globetrotter del volley. La situazione più curiosa in cui si è trovato?

«Quando sono arrivato in Islanda ad allenare la nazionale femminile mi hanno imposto due cose: il geiser sound e il tuffo nell’Oceano freddo. Mi hanno proprio detto così: dimostraci che sei un vero vichingo. Gliel’ho dimostrato, si sono convinti. Freddino quel tuffo, però».

La passione per la pallavolo com’è cominciata?

«Ho iniziato a 13 anni a San Benedetto, mia città natale, dove ho giocato fino a 23 anni, alternando anche le prime attività come allenatore e - insieme - migliorando le mie prestazioni da giocatore. Nel 1990 allenavo già le giovanili maschili della Riviera Samb Volley: vincemmo il titolo regionale nel Superminivolley 4x4, qualificandoci per le finali nazionali di Cesenatico. La data però coincideva con gli orali della mia maturità al Liceo Scientifico. Non vi racconto le acrobazie per essere presente ad entrambi gli impegni. Lo sport era il mio sogno ma la scuola e il diploma erano la priorità».

Chi l’ha avviato a questo sport? Facciamo nomi e cognomi.

«I fratelli Fabio e Raniero Viviani mi hanno introdotto alla pallavolo quando ero un nerd timidissimo: senza di loro non sarei mai diventato un allenatore. Gli devo tantissimo, mi hanno insegnato a dare alla pallavolo il valore che merita. Grazie a Giuseppe Moriconi, invece, ho iniziato ad allenare le giovanili della Riviera. Poi, proprio lui, mi ha portato come suo assistente nei campionati di serie B. Mi ha fatto capire che come giocatore non avrei mai raggiunto i traguardi che mi auguravo, non avrei potuto volare a quelle altezze. Mentre ci sarei riuscito allenando».

E con Massimo Ciabattoni - fortissimo schiacciatore e poi grande allenatore - scomparso prematuramente nel 2021?

«Con lui ho passato periodi bellissimi, iniziando dal corso per allenatori di Urbino (era il 1992), tenuto da tecnici come Velasco, Bebeto e Guerra. Grazie a loro ho contenuto la mia irruenza giovanile, lavorando su me stesso per attivare quei processi evolutivi che mi hanno permesso di arrivare dove sono oggi».

Il primo successo da allenatore?

«Il titolo regionale di Superminivolley nel 1991, poi è iniziata la prima stagione fuori da San Benedetto: sono andato ad allenare a Montegranaro la squadra di serie C femminile e con lo stesso gruppo mi sono spinto alla finale regionale Under 18, che però perdemmo.

Ho quindi vissuto una bellissima parentesi nel beach volley come assistente di Alberto Giuliani (oggi allenatore di Modena in A1 maschile, ndr): sono stato il coach di Andrea Raffaelli e Maurizio Pimponi, che parteciparono alle Olimpiadi di Sidney 2000 e vinsero il campionato italiano nel 2001».

Un trionfo dopo l’altro.

«Nel 2003 arrivò la promozione di Castelfidardo dalla B1 alla A2, tre stagioni fantastiche che accelerarono il passaggio da nerd ad allenatore, per poi vivere quattro anni a Urbino, tra B1 e A2».

E la decisione di allenare all’estero da dove è venuta fuori?

«Nel 2010 in Polonia, ad Olsztyn (in serie A), cercavano un allenatore che provenisse dal settore femminile e che potesse fare da secondo a Gianni Cretu, attuale allenatore della nazionale slovena».

Oggi è direttore tecnico di Volley Angels in provincia di Fermo e ct della Lettonia femminile.

«Per la prima volta abbiamo guadagnato la qualificazione al girone degli Europei che si svolgerà in Italia a luglio. Sarà una esperienza unica. Anche se l’inno italiano non suonerà per la mia squadra sarà sempre un’emozione da provare e da raccontare. E nel dubbio ho imparato anche l'inno lettone: parla di gioventù e futuro».

Non fosse diventato allenatore di pallavolo, cosa avrebbe voluto fare nella vita?

«Avevo vinto un concorso per la sede di Cagliari dell’agenzia delle entrate e avevo già preso casa e prenotato i biglietti per il viaggio, ma il giorno prima mi chiesi se fosse davvero questo ciò che volevo fare nella mia vita. Riflessione brevissima: rinunciai al posto. Fare l’allenatore, però, mi ha fatto capire che probabilmente sarei stato un buon insegnante. Quella sarebbe stata la mia strada se non fossi diventato ciò che sono».

Il giocatore più forte?

«Quello che sa tirare fuori la parte migliore al momento giusto: ma la caratteristica principale resta quella di credere in ciò che si fa, alzando sempre l’asticella. Io da giocatori di questo tipo ho imparato molto. Senza di loro non avrei raggiunto il mio attuale livello di esperienza».

Cosa insegna ai giovani che frequentano i suoi corsi per allenatori?

«Non amo dare consigli, dico loro di credere in quello che fanno, di essere tosti e soprattutto di fare scelte coraggiose per dedicarsi a qualcosa e a qualcuno con tutto se stessi».

© RIPRODUZIONE RISERVATA