In luce al Premio Tutino per il diario di prigonia: la storia di Ettore Piccinini, avvocato anconetano

In luce al Premio Tutino per il diario di prigonia: la storia di Ettore Piccinini, avvocato anconetano
In luce al Premio Tutino per il diario di prigonia: la storia di Ettore Piccinini, avvocato anconetano
di Lucilla Nicolini
3 Minuti di Lettura
Lunedì 6 Novembre 2023, 16:39

ANCONA «Frangar, non flectar. Ma io mica sono d'acciaio...». Il motto "mi spezzerò, ma non mi piegherò" introduce il Quaderno n. 3 dei sei che Ettore Piccinini, avvocato anconetano, scrisse tra il gennaio e l'agosto 1945, mentre era detenuto in un lager in Bassa Sassonia. Il diario, finalista al Premio Tutino 2023, è stato segnalato con la menzione d'onore della giuria. Alla premiazione, di qualche settimana fa a Pieve di Santo Stefano, hanno partecipato i suoi tre figli, Carla, Alberto e Francesca. Era stata quest'ultima, adolescente nel 1980, a battere a macchina il testo, diffuso in una quarantina di copie solo tra famigliari e amici. Quest'anno, l'80esimo dall'Armistizio, i fratelli hanno deciso di vincere la ritrosia, che era stata anche di loro padre. E l'hanno sottoposto al premio: il titolo "Quando saremo di nuovo uomini" è citazione dal testo, che rende conto perfettamente del messaggio che quelle pagine contengono.

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La deportazione

Il giovane Ettore, studente di Giurisprudenza a Bologna, non ha mai combattuto un solo giorno: l'8 settembre del 43, a 21 anni, frequentava il corso Allievi Ufficiali a Padova, «esattamente sottolinea il figlio Alberto - come il sottotenente protagonista del film "Tutti a casa" di Luigi Comencini, interpretato da Alberto Sordi». Ettore si rifiutò di collaborare con i tedeschi e di aderire alla Repubblica Sociale. Fu deportato, come altri 700mila italiani, in Germania, a Wietzendorf, «nel grosso campo di concentramento dove, tra il dieci e il trenta settembre del 1943, furono ammassati come pecore quarantamila italiani».

Ma è solo nel gennaio del 45, trasferito a Breloh, che comincia a scrivere il diario, in cui rivela un approccio sorprendente, disincantato e ironico. Racconta le ristrettezze in cui ha vissuto, le atrocità cui ha assistito; la gran parte delle sue osservazioni derivano dall'osservazione degli atteggiamenti dei compagni di prigionia e dei carcerieri.

Le riflessioni

Mette nero su bianco le riflessioni, profonde e illuminanti, sullo stato d'animo con cui la sua generazione, nata sotto il regime, si era affacciata alla guerra. Ettore, nato nel 22, l'anno della Marcia su Roma, non aveva conosciuto altra forma di governo, ma quello che succede dopo l'8 settembre lo porta a maturare in pochi mesi una lucida consapevolezza. «Noi l'avevamo un'idea: credevamo di poter vivere per fare più grande e rispettato, più ricco e più ordinato il nostro Paese, più giusto il nostro ordinamento sociale. Molti di noi hanno sofferto per questo, molti altri sono caduti per questo. Poi tutto è crollato e il fango ha seppellito tutto, ha coperto perfino il sangue. E noi siamo diventati numeri... e numeri lo siamo ancora. Io, per esempio, sono il n. 156825. Ma quando saremo di nuovo uomini, quale idea ci condurrà? Perché un ideale dovremo pure averlo, sotto pena di essere di nuovo dei bruti, degli schiavi, dei minori».

L'ideale

Un ideale, Ettore lo realizzò. Tornato a casa, dopo un viaggio lungo e periglioso, il 17 agosto del 45, alla professione di avvocato affiancò l'impegno politico. Pur conservando il naturale disincanto, nelle file della Dc, nel dopoguerra si assunse le responsabilità della rinascita, che gli meritarono la vice-presidenza della Provincia, quindi la presidenza della Cassa di Risparmio e del Medio Credito. E diede una mano al sindaco Trifogli per ottenere i finanziamenti della ricostruzione di Ancona dopo il terremoto del 72.

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