La contendibilità di un sistema che si allunga verso la sclerosi

La contendibilità di un sistema che si allunga verso la sclerosi

di Donato Iacobucci
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Mercoledì 4 Novembre 2020, 18:39 - Ultimo aggiornamento: 18:43

L’ultimo numero del settimanale inglese The Economist ha aperto la sezione dedicata al business con un lungo articolo sul declino delle grandi imprese italiane. Il sottotitolo dell’articolo inizia con “The fate of SpA…” riferendosi appunto alla sorte delle nostre società per azioni. Come noto ‘spa’ in inglese indica le terme o un centro benessere. Poiché la maggioranza dei lettori non italiani ignora le forme giuridiche del nostro paese, è probabile che nel leggere il titolo dell’articolo molti di essi avranno pensato che si parlasse dei centri benessere in Italia. Non so se i redattori di The Economist abbiano volutamente giocato su questa ambiguità, ma l’ipotesi non sembra del tutto infondata. La conclusione generale dell’articolo è che l’Italia sta progressivamente perdendo la sua posizione di potenza industriale; per questo rischia di rimanere apprezzata nel mondo come luogo del buon vivere piuttosto che per la capacità di offrire prodotti e servizi di valore. Questa prospettiva sembra condivisa dagli stessi italiani considerato che da diversi decenni la percentuale degli inoccupati, cioè delle persone che non lavorano né lo stanno cercando, ha superato quella delle persone che lavorano (occupati) o che un lavoro lo stanno cercando (disoccupati). Nell’ultimo decennio questa divaricazione è diventata allarmante con gli inoccupati stabilmente sopra il 55% della popolazione e le persone che lavorano in percentuale inferiore al 45%. Un ulteriore indizio in questa direzione sembra dedursi dal continuo calo della propensione imprenditoriale: meno del 3% delle persone adulte si impegna nello sviluppo di un’iniziativa imprenditoriale. Una percentuale che ci pone agli ultimi posti a livello internazionale; la media Ue è più che doppia rispetto all’Italia e negli Usa supera il 15%. Non necessariamente questo dipende dal fatto che gli italiani siano più propensi all’ozio piuttosto che all’impegno nel lavoro. Sempre The Economist ci ricorda che l’Italia si posiziona decisamente in basso nella classifica Doing Business della World Bank; una classifica che misura la facilità di fare impresa. La classifica non fa altro che confermare difficoltà ben note ai nostri imprenditori: le farraginosità burocratiche nell’ottenimento di permessi o autorizzazioni, la complessità del sistema fiscale, le lentezze della giustizia civile, ecc.

Tutti aspetti che scoraggiano l’iniziativa imprenditoriale e rendono il nostro paese poco attraente per l’attività d’impresa: grande e piccola. Il concomitante declino delle grandi imprese e della propensione imprenditoriale evidenzia ancora una volta quanto sia inutile la diatriba sulla preferibilità delle grandi o delle piccole imprese. Un sistema industriale avanzato per essere competitivo ha bisogno di entrambe; ed ha bisogno di un continuo ricambio fra vecchi dominatori e nuovi protagonisti. Le imprese che dominano attualmente la scena dell’informatica a livello mondiale sono nate come piccole start-up ma ciò nonostante sono riuscite e scalzare i precedenti colossi dell’informatica. È probabile che anch’esse fra qualche decennio saranno scalzate da nuovi protagonisti. Un sistema di grandi imprese che non è contendibile dai nuovi entranti è destinato alla sclerosi. Purtroppo, contendibilità e concorrenza sono concetti poco apprezzati nel nostro paese, maggiormente propenso a difendere lo status quo e le posizioni di rendita. E così le grandi imprese si riducono o passano più di frequente in mani estere mentre fanno fatica ad emergere nuovi protagonisti. Una conclusione che vale per l’Italia ma vale anche per la nostra regione. Come era da attendersi, The Economist è pessimista sulle prospettive future del nostro paese. L’articolo si conclude, infatti, con l’abusata citazione di Tancredi nel Gattopardo per caratterizzare un paese nel quale la retorica del cambiamento serve solo a lasciare tutto invariato. In effetti anche stavolta è elevato il rischio che i continui richiami alla necessità di cambiare a al ‘nulla sarà come prima’ si traducano poi in ben pochi cambiamenti effettivi. C’è da augurarsi che non sia così poiché i tempi e le possibilità per invertire la tendenza si stanno progressivamente assottigliando.

*Docente di Economia alla Politecnica delle Marche e coord. Fondazione Merloni 

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