L’affermarsi dell’idea di libertà di concorrenza nelle attività economiche segna il passaggio dalla società feudale alla società moderna. Tale libertà è infatti associata all’idea che gli individui non siano costretti a rimanere ingabbiati in uno specifico ambito produttivo e sociale determinato dalla famiglia di origine ma possono provare ad affermarsi nei più diversi campi di attività in funzione delle loro capacità e delle loro ambizioni.
La libertà di concorrenza economica è a fondamento del pensiero liberale ed è strettamente connessa alla nostra idea di democrazia e di economia di mercato. La libertà di concorrenza assicura l’efficienza dei mercati. Sia in senso statico, impedendo il formarsi di situazioni di rendita; sia in senso dinamico, favorendo l’innovazione e gli incrementi di produttività. L’aspetto chiave della libertà di concorrenza è dato dall’eliminazione delle barriere all’entrata nei mercati.
Queste barriere possono essere ricondotte a due principali motivi: il comportamento delle imprese già presenti sul mercato e l’intervento pubblico. I comportamenti anticoncorrenziali sono tanto più probabili quando in un mercato vi sono poche grandi imprese che possono essere tentate di mettere in atto azioni tendenti a rendere difficoltosa l’entrata di nuove imprese. Si tratta dell’abuso di posizione dominante.
Tali pratiche sono molto spesso associate a comportamenti collusivi (cioè accordi fra le principali imprese) tendenti non solo a limitare l’entrata di nuove imprese ma anche ad evitare la concorrenza fra quelle già presenti sul mercato al fine di aumentare i prezzi e i profitti. Per limitare o impedire questi comportamenti i paesi industriali avanzati si sono dotati di specifiche normative e autorità che hanno il compito di vigilare sui mercati impedendo un’eccessiva concentrazione dell’offerta e reprimendo l’abuso di posizione dominante.
Una delle prime normative in questo ambito è stata quella emanata negli USA nel 1885 per contrastare i ‘trust’ (cioè le aggregazioni) dei produttori di petrolio. Per tale ragione, da allora queste normative e le relative autorità sono indicate con l’appellativo di antitrust.
L’Agcm ha stimato che una maggiore concorrenza nei servizi pubblici in concessione consentirebbe aumenti di produttività in questi servizi di oltre il 25%. Senza contare gli effetti benefici delle liberalizzazioni in termini di innovazione e mobilità sociale. Le difficoltà incontrate dai governi e dalle maggioranze di vario orientamento nell’affrontare questa materia deriva innanzitutto dalla forza di pressione delle categorie che vedono minacciate le posizioni di rendita; vedi il caso recente delle concessioni balneari.
Ma anche dalla scarsa sensibilità degli elettori per questi temi: siamo generalmente inclini al mantenimento dello status quo e delle posizioni di rendita piuttosto che a favorire la libertà di concorrenza. È un atteggiamento che si spiega con la storica debolezza della cultura liberale nel nostro paese. Non è un caso che l’Italia si è dotata di una normativa antitrust nel 1990, con un secolo di ritardo dalla prima normativa antitrust negli USA.
* Docente di Economia alla Politecnica delle Marche e coordinatore Fondazione Merloni