Delle ricostruzioni, delle rivelazioni, delle supposizioni, delle polemiche intorno alla tempesta Azzurra di Ferragosto poco o punto mi importa. Lieto di non dovermene occupare, stanno provvedendo colleghi ben più di me ferrati in materia, e non li invidio. Piuttosto mi sembra più urgente e più giusto ringraziare Roberto Mancini dimissionario per ciò che ha fatto negli anni da Commissario Tecnico. Per la vittoria agli Europei innanzi tutto, ovvio. Che non è stata una semplice, per quanto prestigiosa, vittoria sportiva. Torniamo indietro di due anni. All’Italia in gran parte vaccinata e tuttavia vessata, strangolata da misure di precauzione di giorno in giorno più incomprensibili inaccettabili. Dalla logica calpestata. «Vi siete vaccinati per tornare alla vita normale ma alla vita normale non potete ancora tornare, state mascherati anche all’aperto, state distanziati, beccatevi ancora un pochino di coprifuoco, di zone colorate, se del caso rafforzate. Perché? Perché sì».
E l’effetto collaterale era un discreto numero di terrorizzati, persone che se le incrociavi a passeggio facevano il giro larghissimo, persone che non potevi incrociarle per via, stavano ancora barricati in casa fisse. Quelle partite, quelle inattese e sofferte vittorie, perciò ancora più belle, diedero la sveglia a un intero Paese. Tutti in strada a festeggiare, a urlare, ad abbracciarsi, a clacsonare, e tanti saluti alle regole divenute assurde: fu l’inizio della fine della stagione della paura. Mancini va ringraziato per aver trasformato un gruppo di calciatori non eccelso - si prega di rileggere le formazioni che potevamo schierare negli anni Ottanta, Novanta, negli anni Zero - in una squadra tosta, compatta, bella da veder giocare, e di aver raggiunto questo risultato senza darsi arie da guru, senza pretendere d’aver inventato lui il calcio o almeno d’averlo rivoltato come un calzino. Guru ce n’è gran copia fra i suoi colleghi, ce n’è quanti (non) se ne vorrebbe anche fuori dal mondo del calcio, se è per questo, rane gonfiate più di quella della fiaba, scadenti imitatori d’asini raglianti no stop: «Io io io».
Mancini ama il gioco del calcio più di se stesso.
Giusto o sbagliato, funziona in questo modo. Ed è saggio andarsene subito da un posto di lavoro, da una situazione quale che sia in cui non si è più così graditi, sostenuti sino in fondo. Le tardive dimissioni manciniane - ecco l’ultimo motivo per cui ringraziamo il tecnico jesino - hanno perlomeno posto fine a questa stranissima estate priva di calcio parlato. Ché il calciomercato quest’anno è come se non ci fosse. Da marchigiano puoi al massimo interessarti alla campagna acquisti di Ascoli e Ancona. Non certo dei grandi club che al più si contendono Lukaku, e vale a dire il miglior giocatore del Manchester City nell’ultima finale di Champions: peccato vestisse la maglia dell’Inter (a ‘sto punto mi domando perché non si scateni un’asta per Wijnaldum, l’uomo in più del Siviglia contro la Roma: pur indossando, passeggiando, la maglia della Roma). Nel nostro calcio, soldi ne girano pochi. In Arabia moltissimi. Nulla di sorprendente se Mancini andasse ad allenare là. E nulla di cui scandalizzarsi.
*Critico cinematografico
e opinionista
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