Agricoltura e grandi marchi Il problema è sempre di taglia

Agricoltura e grandi marchi, il problema è sempre di taglia

di Donato Iacobucci
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Giovedì 22 Febbraio 2024, 08:28

Le pagine economiche dei quotidiani della scorsa settimana sono state dominate da alcuni fatti fra loro scollegati ma dai quali provo a trarre una riflessione che li accomuna: da una parte le proteste degli agricoltori, dall’altra le cessioni a gruppi esteri di alcune grandi imprese. Parto dagli agricoltori. Come ha notato Edoardo Danieli nel fondo di venerdì scorso su questo giornale, la protesta ha degli aspetti paradossali. Per anni abbiamo sostenuto che l’agricoltura nel nostro paese dovrebbe puntare sulla qualità e sul rapporto con la tradizione rifuggendo dall’omologazione e dal produttivismo. Non è chiaro quindi perché opporsi alla limitazione nell’uso dei fitofarmaci o a regole più stringenti nella rotazione delle colture. A nessuno piacciono le costrizioni ma queste sembravano andare nella direzione auspicata, oltre che nell’interesse di consumatori e ambiente. In realtà la protesta degli agricoltori è motivata soprattutto da ragioni economiche. Va in questa direzione la richiesta di esenzione dall’IRPEF per i redditi agricoli.

L’esenzione sarà totale per i redditi fino a 10.000 euro e parziale per quelli fra i 10.000 e i 15.00 euro. Si tratta di redditi dominicali e agrari, cioè presunti. Vi è da sperare che quelli effettivi siano più alti, anche se il risultato sarà comunque quello di esentare dalla contribuzione fiscale una vasta platea di contribuenti. L’agricoltura pesa intorno al 2% del PIL per cui possiamo permettercelo. In questo modo si asseconda la sopravvivenza di operatori economici a basso reddito e bassa produttività. In Italia questa condizione è più diffusa che in altri paesi. All’ultimo censimento dell’agricoltura (2021) risultavano 1 milione e 133 mila aziende agricole che utilizzavano 12,5 milioni di ettari di superficie agricola. Il 40% delle aziende agricole lavora meno di 2 ettari e i due terzi meno di 5. Nel nostro paese questa elevata frammentazione non riguarda solo l’agricoltura ma si estende a tutti i settori. All’ultimo censimento dell’industria e dei servizi (2021) risultavano attive 4 milioni e 300 mila imprese con meno di 10 addetti. La media di occupati per impresa era di 1,8 e la gran parte aveva un solo un addetto.

A queste si aggiungono le persone fisiche con partiva IVA: nel 2021 erano 3,7 milioni e oltre il 50% ha dichiarato un reddito inferiore a 10.000 euro. Per dare un’idea delle differenze di produttività fra imprese di diversa dimensione basti considerare che il valore aggiunto per addetto di quelle con meno di 10 addetti è di 33 mila euro, mentre in quelle con oltre 250 addetti è di quasi 80 mila euro. Con ciò che ne consegue in termini di capacità di remunerare il lavoro e pagare imposte e contributi. Nel frattempo, leggiamo che la Saras (storica impresa della raffinazione) viene ceduta al gruppo svizzero-olandese Vitol e Tods’ annuncia il lancio di un un’offerta di acquisto sul flottante da parte del fondo USA LCatterton. In entrambi i casi le società saranno cancellate dal listino di borsa.

Si tratta degli ultimi casi, sempre più frequenti, di cessione totale o parziale di imprese italiane a gruppi esteri. Le imprese italiane, anche quelle grandi, hanno dimensioni decisamente inferiori ai grandi gruppi esteri e anche per questo figurano quasi sempre come prede piuttosto che predatori. E avvenuto così in molti settori, fra cui il lusso, l’automotive, l’elettrodomestico, ecc.; finiamo per rimanere bravi produttori all’interno di strategie commerciali decise altrove. Da decenni nel nostro paese aumenta la quota di occupati in imprese di piccolissima dimensione che chiedono di essere sostenute per poter sopravvivere; allo stesso tempo si indebolisce il tessuto delle grandi imprese, nella distrazione generale. Ben venga la vivacità imprenditoriale di chi intende mettersi in proprio ma alla lunga una quota eccessiva di occupati in imprese e attività a bassa produttività è insostenibile. Non solo per le minori opportunità di crescita individuale, come testimoniato dal crescente numero di giovani che emigra, ma perché mette in discussione la possibilità di mantenere i livelli di welfare fin qui raggiunti e di continuare a sostenere politiche assistenziali verso i settori deboli. 

*Docente di Economia 
all’Università Politecnica delle Marche e coordinatore 
della Fondazione Merloni

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