Paola Petti, la compagna di Simmi
«Ho visto uccidere Flavio, ora ho paura»

Paola Petti, la compagna del giovane ucciso in Prati
Paola Petti, la compagna del giovane ucciso in Prati
di Nino Cirillo
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Venerdì 8 Luglio 2011, 09:54 - Ultimo aggiornamento: 1 Agosto, 18:25
ROMA - Di Paola Petti rimasta un’ombra di donna, una donna che ha visto uccidere l’amato compagno davanti ai suoi occhi. Quel delitto, il delitto di luned mattina in via Grazioli Lante, la feroce esecuzione di Flavio Simmi, Paola ce l’ha ancora stampato negli occhi, il resto una figurina esile esile, impaurita, con le braccia perennemente conserte

e i capelli color rame raccolti alla meglio.

Abbraccia le amiche, piange sulle loro spalle, ma per una buona mezz’ora non apre bocca. Poi si decide, con quel filo di voce che le è rimasto. E non solo insiste sulla pista della vendetta per quel dannato falso stupro, ma rivela che anche una seconda auto, due giorni prima del delitto venne trovata con una gomma bucata. E accusa chi ha consegnato ai giornali spezzoni della sua testimonianza: «Mi sento in pericolo, può toccare anche a me».



Con due macchine a disposizione fu il caso, quella mattina, a farvi scegliere la Ford Ka con la gomma già bucata dai killer?



«No, non fu un caso. La Ford la usavamo sempre durante la settimana, perché aveva il permesso per il centro storico. E loro lo sapevano».



Un agguato studiato da tempo?



«Gli assassini di Flavio avevano studiato tutte le nostre mosse. Anzi, forse avevano fatto di più, avevano già tentato l’agguato».



Quando, dove?



«Può darsi che sia solo una straordinaria coincidenza, ma può darsi anche che non lo sia. Dovranno accertarlo gli investigatori. L’altra macchina, la mia Classe A, quella che usavamo nei fine settimana, l’abbiamo trovata con una gomma bucata sabato mattina, solo 48 ore prima. Eravamo nella casa di campagna di Valle Coppa, aveva uno spuntone di ferro ben piantato, ma non ci demmo peso».



Fu un week end sereno?



«Sì, eravamo sereni. Eravamo stati a cena da un cinese in Prati, venerdì sera, a festeggiare insieme l’ultimo ferro che Flavio si era tolto dopo quei proiettili alla gamba. Una piccola grande vittoria per lui che continua a soffrire come un cane nelle lunghe ore di fisioterapia. Poi raggiungemmo gli amici in centro e di lì in campagna. Io e lui, quella sera, non potevamo chiedere di meglio alla vita».



Crede anche lei che il movente di questo delitto sia da trovare in quel falso stupro della donna del detenuto?



«E’ l’unica pista, l’ho detto anche ai magistrati. Non ne cerchino altre. Ed è una storia che purtroppo già conoscevo, di cui ho parlato tante volte con Flavio. Una prima volta me l’accennò lui, eravamo da poco insieme, e fini lì. Ma poi, dalla sera di febbraio in cui andarono a gambizzarlo nella gioielleria, l’abbiamo ripercorsa per filo e per segno tante volte. Era il suo incubo».



Chi non crede a questa pista, e invece propende per scenari criminali più complicati, chi pensa insomma a una guerra tra bande, addirittura parla di una misteriosa valigetta sparita dalla vostra Ford. C’era questa valigetta?



«Che falsità. Glielo dico io cosa avevamo in macchina quella mattina. Due buste di plastica piene di panni sporchi da portare in tintoria e un paio di mocassini di mio suocero per il calzolaio. Tutto qui, altro che valigette. E’ un’altra di quelle indiscrezioni avvelenate che hanno solo l’obbiettivo di infangare la memoria di Flavio».



Gli investigatori l’hanno già ascoltata, com’e andata?



«Una sola volta. Ho risposte alle loro domande per un’ora o poco più. Mi hanno pregato di scandagliare fra tutti i ricordi di quella maledetta mattina, anche i più insignificanti, di dire proprio tutto, di non contare troppo su quelle telecamere piazzate così vicino, sulle mura della caserma del Genio militare, perché potrebbero fornire alla fine filmati di qualità molto scadente. E io ho detto tutto. Salvo poi ritrovarmi passaggi importanti della mia deposizione sui giornali dell’indomani. Pazzesco».



Si sente in pericolo?

«E’ indecente che la mia versione dei fatti possa essere resa pubblica. Solo in un Paese come questo può accedere. Sì, mi sento in pericolo, ho paura che possa toccare anche a me. E questi buchi nella riservatezza delle indagini non fanno altro che aumentare il pericolo, che dilatarlo a dismisura, che rendermi un bersaglio ancora più facile».



Le è stata data protezione dalle forze dell’ordine?



«No, non mi è stata neppure offerta».

Cosa le sta insegnando questa tremenda storia?

«Mi sta insegnando che non funziona niente. Non funziona la giustizia, non funziona la sicurezza, non funziona niente. Le minacce che Flavio ha ricevuto in questi mesi sono state gravemente sottovalutate, forse da noi per primi, ma soprattutto da chi aveva il dovere di salvargli la vita».
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