Alcune delle sculture di Luciana Loccioni, esposte in questi giorni alla Galleria Papini di Ancona, hanno dei versi per didascalia. Li ha scritti il figlio Maurizio Landini, che ha ereditato dalla madre la vena poetica e la capacità di guardare il mondo al di là delle apparenze. Come lei, sa leggere nelle pieghe del reale, che talvolta sarebbe più giusto chiamare “piaghe”. Sono le ferite, fisiche e morali, da cui, nella percezione di Luciana e Michele, i nostri corpi sono segnati, come le nostre anime. Il tempo, gli accadimenti, i torti e i dolori scavano sulla pelle, metaforicamente o meno, ingiurie non sempre sanabili. Ma l'arte, da sempre, redime e ripara i guasti, denunciandoli, come fa Luciana Loccioni con le sue opere.
L’effetto cromatico
Nella mostra, che s'intitola “Ferite o feritoie”, queste sculture s'ergono appuntite, creando con il bianco delle pareti un effetto cromatico efficace, netto. Acuminate lance si impennano verso il cielo, minacciose armi issate contro il diritto alla pace. Corrusche lastre tondeggianti sono tagliate come da feroci lame. L'apparenza del pericolo incombente, inappellabile, viene però attenuata, esorcizzata, da colate d'oro, che s'intravedono al di sotto dei tagli, sugli slabbrati lembi, al culmine delle lance aguzze. «Il filo di ferro con cui le ferite vengono ricucite dall’artista – scandiva il critico Michele Servadio all'inaugurazione della mostra - testimoniano capacità di estroflettere il proprio spirito verso il mondo esterno, la voglia di convogliare un messaggio attraverso una possibile redenzione.
Il messaggio
Il messaggio finale dell’artista è fatto di speranza, non di commiserazione, di luce e non di buio; trova pieno e definitivo compimento nella figura dell’angelo, realizzato tramite sapienti saldature e fusioni, che testimoniano la profonda padronanza tecnica».
Le incisioni a puntasecca
Tra le sculture sono particolarmente interessanti tre incisioni a puntasecca, astratte. Due, ai lati dell'angelo, sembrano rappresentare la forza del pensiero, che non si lascia imbrigliare. La terza evoca la luce che si accende davanti a ogni uomo, quando riesce a suturare le ferite che gli ha inferto la vita. Resterà una cicatrice, visibile e tangibile, ma il sole lassù splende ancora per ognuno di noi.