Donne, dei diritti e dei delitti. Estirpare le radici della violenza

Donne, dei diritti e dei delitti. Estirpare le radici della violenza

di Simonetta Marfoglia
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Giovedì 21 Dicembre 2023, 06:05 - Ultimo aggiornamento: 08:33

No, non ne siamo usciti migliori, o per lo meno più consapevoli. Rientrato lo tsunami emozionale di identificazione collettiva per il femminicidio di Giulia Cecchetin - eletta a figlia, sorella, nipote, amica d’Italia - le donne sono continuate a morire per mano degli uomini (l’ultima l’altro giorno, la 27enne Vanessa Ballan incinta di 3 mesi) solo che il 99% delle vittime sono destinate a diventare dei numeri del pallottoliere: 109, 110, 111... E dire che nei giorni attorno al 25 novembre (la data che fa da contrappeso all’8 marzo nell’ellittico scenario dei diritti e dei delitti) la questione non ha monopolizzato solo i media ma occupato ogni spazio di dibattito pubblico e di conversazione privata. Tra l’altro quest’anno per il seconda volta consecutiva il 25 novembre ha impattato su Pesaro e provincia (ma allarghiamoci pure all’intera regione) con la forza devastante dell’asteroide in rotta di collisione con il pianeta Terra.

L’anno scorso fummo sommersi da un’ondata di dolore collettivo per il brutale omicidio di Anastasia. Si chiamava Anastasiia Alashri, aveva 23 anni ed era fuggita dalla guerra in Ucraina con il figlioletto di 3 anni. Nella casistica dei femminicidi quello di Anastasiia è stato un assassinio da manuale, tragicamente e mediaticamente perfetto (come si è appunto ripetuto per Giulia Cecchettin) per sollevare indignazione trasversale e totalizzante: aveva persino denunciato da poco per maltrattamenti il marito da cui si voleva separare e che l’ha ammazzata con più di 10 coltellate all’ultimo chiarimento. Poi un anno dopo l’omicidio di Rita Tomaselli, 66 anni, strangolata a Fano dal marito 70enne, nei giorni immediatamente precedenti il 25 novembre, pur tuttavia inquadrandosi all’interno di una bolla più nebulosa di rapporti familiari sbriciolatisi nell’esasperazione di una convivenza logorata dal disagio mentale dove la fragilità psichica colpisce la vittima quanto il suo carnefice. Ma Anastasiia e Rita sono solo due esempi di una casistica ampia che alla fine, appunto, si condensa in cifre anzichè volti e nomi. Per dirla: dal 2017 a oggi siamo già a 23 donne uccise nella nostra regione con una media di tre femminicidi all’anno. Ed è in crescita il numero delle donne che si rivolge ai Centri antiviolenza. Nel 2022 hanno chiesto aiuto ai Centri delle Marche in 705, 42 in più rispetto al 2021 (663). Nell’anno precedente, 2020, i casi erano stati 483. Per 18 è stato necessario l’inserimento in una struttura protetta (e forse non tutti sanno che una di queste Case dell’emergenza c’è anche a Pesaro, dedicata a Ipazia, la storica matematica, astronoma e filosofa martire antelitteram della libertà di pensiero). Non solo, fatevi un giro nei tribunali e scoprirete quanti processi ordinari ci sono per maltrattamenti in famiglia, lesioni o stalking, spesso con i capi d’imputazione riuniti a fare massa un tanto al chilo.

Il lockdown del Covid è stato un innegabile spartiacque tra prima e il dopo, con il dopo che ha visto impennarsi in modo esponenziale denunce e segnalazioni alle forze dell’ordine.

Nel frattempo si sono aperti anche i centri per uomini maltrattanti, perchè se si vuole agire sulla (ri)educazione) non è solo un passo doveroso ma necessario, anche se ancora ben poco diffuso, e a livello nazionale il Codice rosso ha alzato l’asticella dell’inasprimento delle pene con ulteriori disegni di legge annunciati a stretto giro di posta (anche se poi accade che i braccialetti elettronici hanno la consistenza di un grissino in ammollo e succede che uno ammazza l’ex e l’altro che era ai domiciliari per violenza sessuale fugge ed è andata già di lusso che è stato riacciuffato a stretto giro). E poi ci sono i corsi e le lezioni nelle scuole, l’educazione, la didattica, la formazione, i progetti, i programmi, le campagne, le sedute consiliari (messaggio ai politici: mettete due spicci seri per (ri)finanziare i progetti), i confronti, gli incontri, gli ascolti, i reading, le conferenze, le mostre, i dibattiti, le presentazioni, le proiezioni, le videoinstallazioni, i sit-in, i presidi, i flash mob, i cortei, i murales, le scarpette e le panchine rosse, le luci e le spillette orange. Perchè tutti, pubblico e privato, dai Comuni alle associazioni agli enti del cosiddetto terzo settore, a ridosso del 25 novembre si sentono in dovere di organizzare un alcunchè, così che a livello di appuntamenti questi giorni sono talmente bulimici di iniziative da assomigliare come ingolfamento a certi tratti autostradali da esodo (o controesodo) estivo. D’altra parte è innegabile e pacifico che il cambiamento debba essere culturale. Sono anni che celebriamo, onoriamo (e commemoriamo) i riti collettivi del 25 novembre all’insegna della sensibilizzazione (e della copertura mediatica oggi anche social), e sono altrettanti anni che aggiorniamo periodicamente questa contabilità di morte e dolore. E il bilancio è sempre in rosso.

Dov’è allora il corto circuito? Non è che a tanto sforzo comunicativo (perchè lo sforzo innegabilmente c’è) non corrisponda poi un altrettanto efficace messaggio veicolato? O meglio: siamo sicuri che questi messaggi arrivino ai destinatari giusti? Prendete certe conferenze con un pubblico a maggioranza femminile (e un po’ di uomini già sensibilizzati): ovvio che ne usciremo tutte/tutti d’accordo specie poi se ancora inzuppati dall’onda emotiva. E poi che succede? Non dico il 26 novembre o il 9 marzo, ma che so, un 11 maggio? I corsi scolastici sull’affettività avranno effetti subito oppure si affievoliranno appena i ragazzi saranno inseriti in un altro contesto (il gruppo) o lasciati soli (i social)? La violenza di genere, e chiaramente la violenza tout court inizia sempre da un rapporto di forza. Poi possiamo chiamarlo (cyber)bullismo, stalking, revenge porn o femminicidio, ma sono le radici che vanno estirpate. Strada lunga insomma, piena di bivi, di percorsi accidentati o tranello che spesso riportano al via. Come al gioco dell’oca.

*Capo della redazione di Pesaro del Corriere Adriatico

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