Parola d’ordine: accorciare i tempi. Cinque anni per riscuotere e poi basta: se il fisco non sarà stato in grado di farsi pagare, nel giro di 60 mesi, le cartelle esattoriali finiranno al macero. Governo pronto a mandare in pensione l’epoca dell’eterna caccia ai morosi. Ci sono 160 milioni di cartelle ancora in ballo e l’80% si riferisce al periodo 2000-2015. Tra i 18 milioni di italiani cui il fisco dà la caccia (quasi mille i miliardi da recuperare) la maggior parte è chiamata in causa per multe, contributi, imposte e gabelle non pagate che si riferiscono a tempi ormai antichissimi.
LE TAPPE
L’esecutivo vuole darci un taglio e con la nuova riforma della riscossione (le due precedenti, quella del 1999 e quella successiva del 2006, con la nascita della contestatissima Equitalia e la riconduzione in mano pubblica del recupero coattivo delle tasse non pagate hanno dato qualche risultato) punta a cancellare il problema dei problemi: la montagna di arretrati. Se con il decreto Sostegni si è arrivati al condono (come ha ammesso senza mezzi termini Mario Draghi) è perché, appunto, la riscossione delle tasse resta un flop. «È chiaro che sulle cartelle lo Stato non ha funzionato, uno Stato che ha permesso l’accumulo di milioni e milioni di cartelle che non si possono esigere: bisogna cambiare qualcosa» ha spiegato il premier. È il manifesto di una sconfitta.
Il sistema, citando le parole utilizzate in audizione parlamentare dal direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, non funziona in quanto, ad esempio, «per i contribuenti che non estinguono il debito, a seguito della notifica della cartella o dell’avviso, è necessario avviare le attività di recupero all’interno di un quadro normativo che si presenta macchinoso ed impone lo svolgimento di attività pressoché indistinte per tutte le tipologie di credito iscritte a ruolo, non potendo modulare l’azione di recupero secondo principi di efficienza ed efficacia. E questo condiziona la possibilità di migliorare i risultati di riscossione». Inoltre, le norme a tutela del contribuente (come l’impignorabilità della prima casa), inibiscono o limitano le azioni di recupero. In sostanza, da una parte le leggi sono eccessivamente garantiste e dall’altra impongono all’amministrazione di perseguire tutti i crediti, magari per anni e per pochi spiccioli da incassare, senza alcuna logica di convenienza finanziaria. E questo, nei piani degli uomini del fisco, deve cambiare.
LE CIFRE IN GIOCO
Tanto più che il volume degli incassi complessivi da riscossione stimati per l’anno 2020 risulta pari a 6,4 miliardi di euro. Davvero poco. Secondo l’Agenzia delle Entrate, lo Stato deve ridurre drasticamente i termini di esigibilità dei crediti. Lo scorso anno i termini sono stati ulteriormente prorogati e le prime comunicazioni di inesigibilità saranno trasmesse entro il 31 dicembre 2023 per i ruoli consegnati nell’anno 2018, mentre i crediti più antichi, la cui speranza di riscossione è assai remota, rimarranno ancora molti anni all’interno del magazzino. Norme alla mano, I crediti affidati nell’anno 2000, quindi 20 anni fa, saranno definitivamente rendicontati e cancellati solamente tra 22 anni.
LO SCOPO
Per questa ragione si pensa, appunto, ad imporre all’agente della riscossione un termine preciso: 5 anni. Vale a dire 60 mesi di tempo tra la consegna della pretesa esattoriale da parte dell’ente impositore (Agenzia delle entrate, Inps e comuni) nelle mani del fisco e l’incasso. Trascorso quel periodo senza effetti la cartella esattoriale viene cancellata. «La revisione dell’attuale meccanismo dell’inesigibilità – spiega una fonte impegnata sul dossier – determinerebbe la possibilità di pianificare meglio l’attività di riscossione e di ottimizzare, in relazione ai mezzi a disposizione, i risultati dell’azione che sono condizionati dal dover svolgere azioni di recupero che, troppo spesso, assumono carattere solo formale». Traduzione: azione concentrata sugli importi più rilevanti. Per andare a colpo sicuro e recuperare gettito.