Lorenzi porta “Festen, il gioco della verità” all’Alaleona di Montegiorgio: «La crudeltà fa parte di noi»

Danilo Nigrelli ed Elio D’Alessandro FOTO GIUSEPPE DI STEFANO/UFFICIO STAMPA
Danilo Nigrelli ed Elio D’Alessandro FOTO GIUSEPPE DI STEFANO/UFFICIO STAMPA
di Lucilla Niccolini
3 Minuti di Lettura
Martedì 8 Marzo 2022, 23:13

MONTEGIORGIO - È tutt’altro che una festa, o un gioco, nonostante il titolo, “Festen, il gioco della verità”. Va in scena stasera al teatro Alaleona di Montegiorgio, alle 21. Il regista, il quarantenne Marco Lorenzi, lo ha tratto dall’omonimo film di Thomas Vinterberg, pellicola di culto. Fu la prima a essere realizzata, nel 1998, secondo i principi del manifesto cinematografico Dogma 95, firmato dal regista danese con Lars von Trier, dove si proclama l’impegno al cinema-verità, rinunciando ad artifici, a effetti speciali. Come si fa a teatro. 

 
Anche per questo, Lorenzi, ha deciso di portare la storia sul palcoscenico? 
«È un esperimento, com’è lo stesso film. E una sfida, perché la prosa, in Italia, naviga nel mare nostrum di un repertorio molto frequentato, ripetitivo, vincolato ai grandi autori. Poi, perché il lavoro di Vinterberg ha una forte identità teatrale, girato com’è in un unico spazio, la villa dei Klingenfeld, in cui si riunisce la famiglia, per festeggiare i sessant’anni del patriarca Helge».


Una resa dei conti tra generazioni.
«Tant’è vero che non potevamo non evidenziare i debiti nei confronti del dramma greco, di Shakespeare e di Ibsen. Ed è anche una riflessione sulle potenzialità inesplorate del teatro, che credo, con molta umiltà, non sia mai stata fatta prima. Sono orgoglioso di portarla in un teatro antico e stupendo come quello di Montegiorgio».


Lo svolgimento dell’azione sul palco scorre parallela a immagini proiettate sul velatino, dietro al quale recitano gli interpreti. Un riferimento alla matrice cinematografica? 
«Il velo, oltre che metafora del velo di Maya, che viene strappato sulla verità dagli eventi, è una provocazione.

Non potevamo ignorare che con quest’opera si intendesse innovare il linguaggio cinematografico. Ma c’è di più: “Festen” non è solo una storia di famiglia. L’intento, politico, è di mettere gli spettatori di fronte al rapporto col potere. Così la doppia sequenza - attori in scena e, sovrapposta, la proiezione di primi piani e angolature riprese in piano sequenza da una telecamera – è metafora del messaggio: chi attira di più la nostra attenzione, a quale piano di realtà decidiamo di credere?». 


E così il pubblico è chiamato a scegliere? 
«Prima ancora dell’inizio, gli chiediamo a quale versione del dramma vogliono assistere, mostrando due cartelline, una verde e una gialla, come fa il protagonista, Christian, quando, al brindisi, chiede al padre e ai parenti quale discorso, tra due che ha preparato, vogliono ascoltare. Poi, le sue parole risultano devastanti, ma chi può dire cosa sarebbe successo se i convitati avessero scelto l’altro?». 


Un dramma sul passaggio generazionale. Chi vince, chi perde? 
«Come nelle tragedie greche, perdono tutti. Oggi come allora, il messaggio è che dobbiamo accettare il fatto che la crudeltà fa parte di noi. Il padre, perbenista e violento, viene cacciato, ma è reale il sospetto che chi resta seguirà le sue stesse dinamiche, continuerà a fingere. Una freudiana “uccisione del padre”, come in Amleto, o come in “Hänsel e Gretel”. Una catena, che il teatro si è incaricato da sempre di smascherare».

© RIPRODUZIONE RISERVATA