Il clarinettista Mirabassi ospite del Museo archeologico delle Marche: «Pensavo alla musica colta e popolare brasiliana, ma poi il contesto mi ha ispirato il jazz»

Il clarinettista Gabriele Mirabassi
Il clarinettista Gabriele Mirabassi
di Lucilla Niccolini
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Venerdì 19 Novembre 2021, 11:00

ANCONA - Una nuova residenza di artista ad Ancona, promossa dagli Amici della Musica “Guido Michelli”. Fino a sabato, il Museo archeologico delle Marche ospita il clarinettista Gabriele Mirabassi. 
Qual è l’origine di questa esperienza anconetana? 
«Me l’ha proposta il direttore artistico, Guido Barbieri, che a gennaio 2020 mi aveva coinvolto in un concerto allo Sperimentale. Per la Giornata della Memoria, avevo eseguito, con lui, voce recitante, Pieranunzi, Baglini e Chiesa, il “Quartetto per la fine del tempo” di Olivier Messiaen. Avevo trascorso diversi giorni in città, chiamato a esibirmi anche in una seduta commemorativa in Consiglio regionale. Per me è sempre una felicità tornare ad Ancona, dove ho suonato anche per il festival jazz, organizzato dagli amici Di Napoli e Tarabelli, ma sulle prime la proposta di Barbieri mi è sembrata insolita: mi ha lasciato carta bianca, affidandomi ad Annalisa Pavoni, mia tutor in questa esperienza».

 
Qual è il tema della sua residenza?
«Avevo pensato di continuare la mia ricerca dell’ultimo periodo: il rapporto tra musica colta e popolare della tradizione brasiliana. Ma il contesto di Palazzo Ferretti mi ha ispirato tutt’altro: sarà di improvvisazione jazzistica, l’incontro col pubblico di domani (oggi per chi legge, ndr), che si terrà alle 18 nel Salone delle Feste. È una questione di convivenza». 
Cosa intende?
«L’ho imparato suonando col compositore brasiliano Guinga. Non parlava mai di “prove”, tra noi, ma di “convivenza”: una volta raggiunta, l’affiatamento risultava perfetto. E ora, sono entrato in sintonia con il museo, “conviviamo”. E il salone, con la sua acustica e la sua atmosfera, funge da partner: saremo in due, lui e io, a suonare».
Un duetto insolito, come quelli che le piace instaurare con attori e scrittori, oltre che con colleghi musicisti. La musica accompagna le parole? 
«Parlerei piuttosto di contrappunto, tra note e parole. E non tutti i testi sono musicali, come lo sono le pagine di Erri De Luca, che prediligo. Scrive frasi che durano un fiato, non di più. E sa dare ritmo alla narrazione». 
Meglio che suonare in orchestra? 
«Quella dell’orchestrale non è la mia vita, l’ho imparato nelle lunghe estati, quand’ero ancora molto giovane, allo Sferisterio, con la Filarmonica Marchigiana. Mi sento piuttosto un “pifferaio”, un cantastorie: clandestino ovunque, mi piace mescolarmi con la gente del posto, in un villaggio del Polo Nord come nelle favelas di Rio».
Una curiosità: a che voce assomiglia, per lei, quella del clarinetto?
«A un gatto, alla morbidezza di velluto del suo pelo, come alla sua capacità di apparire all’improvviso dal nulla, quando meno te ne accorgi, e di sfoderare unghie affilate».

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