Tornato prepotentemente alla ribalta in questi giorni per le allarmanti vicende atmosferiche, il nome di Circe è da sempre legato alla leggenda. Al suo nome sono stati associati terribili poteri magici, ma anche benigna capacità di trasformare: non solo esseri umani in animali, come per i compagni di Ulisse, ma anche sostanze semplici e inutili in oggetti di pregio e beni di vitale importanza. “Distillavamo la pioggia dalle nubi e il sale dalle onde”, dice di sé stessa Circe nel bel libro di Madeline Miller, aggiungendo: “Nacqui quando ancora non esisteva nome per ciò che ero”. La trasformazione - e la capacità di gestirla con determinazione - sono il vero tratto distintivo di Circe, descritta come perfida dea-maga nell’opinione comune ma, in realtà, donna ricca di contraddizioni, in cerca di equilibrio terreno, di grandi capacità e profonda umanità.
Trasformazione è la parola che più la rappresenta. Non è un caso che un recente progetto europeo, sviluppato da alcuni importanti operatori marchigiani sul tema della sostenibilità, ne abbia preso a prestito il nome per sottolineare quanto esso sia sinonimo di capacità di dare nuova vita alle cose che apparentemente non servono più. Peccato che, nonostante qualche esempio virtuoso come quello sopra richiamato, il nostro ricordo di Circe sia ancora legato al racconto di Ulisse, quando lui e i suoi uomini si trovarono ad approdare nell’isola Eea. Narrativa facile da ricordare, ma fuorviante nella lettura e potenzialmente pericolosa nelle implicazioni. Nella lettura, perché da più parti si dice che Circe non trasformava affatto gli individui, ma rivelava semplicemente ciò che già erano, facendone affiorare la natura nascosta; per le implicazioni, perché nasconde la figura della donna moderna, autonoma e consapevole, capace di arricchire la varietà delle opinioni e dei punti di vista che sono alla base del processo di trasformazione. Una recente indagine sull’adozione dei criteri ambientali, sociali e di governo (ESG) nelle imprese marchigiane e abruzzesi ha messo in evidenza come il terzo fattore – ossia il governo delle imprese – sia il più debole e il meno attivo a supporto della competitività aziendale.
Meno del 20 per cento delle imprese ha una donna nel board e, quando presente, è spesso una semplice emanazione formale della famiglia proprietaria.
E non solo sul fronte del governo delle relazioni, nelle quali hanno un indubbio vantaggio comparato, ma anche - e soprattutto - sul versante della trasformazione. Dopo decenni di produzione di oggetti noti e definiti, è sempre più necessario che le attività produttive abbraccino l’innovazione nel modo in cui i prodotti sono concepiti, resi funzionali e riutilizzati nel tempo. Non solo efficienza, dunque, ma capacità di trasformare l’esistente in nuove soluzioni, facendone affiorare la natura nascosta: “Nacqui quando ancora non esisteva nome per ciò che ero”, per riprendere ancora le parole di Circe.
*Professore ordinario
di Economia Applicata
presso l’Università Politecnica
delle Marche
Facoltà di Economia“G. Fuà”