Il famigerato rave party sul lago di Mezzano (Viterbo) ha scatenato una ridda di giudizi sollevando una sorta di sdegno collettivo. I primi raves prendono corpo nelle fabbriche abbandonate delle metropoli americane per poi espandersi in Gran Bretagna e nel resto d’Europa. All’inizio si voleva stigmatizzare la condizione sociale di migliaia di operai disoccupati, enfatizzando la possibile liberazione dell’uomo dalla schiavitù del salario. Con la momentanea “Taz” (Temporary Autonomous Zone), si decideva un’autonoma destinazione d’uso del luogo prescelto con le macchine - fino ad allora produttrici di merci - che sarebbero state il centro di una forte ri-significazione musicale, espressa in sonorità elettroniche, mixate nell’irrisolto legame che il rave intrattiene con la metropoli. Si tratta di suoni campionati dalla realtà urbana: sirene, antifurti, stridori di macchinari industriali, con la musica techno che, fin dalla sua nascita, esprime l’urlo di una marginalità sociale difficilmente riscattabile. In alcuni casi si è scelto un edificio religioso abbandonato e la cosa non è di poco conto: la solitudine ricercata dai monaci diventa ora quella assordante del vuoto socializzativo dei ravers. Dove la civiltà sacrale invitava al silenzio, il debito identitario della società differenziata fa annegare nei decibel; un tempo si sceglieva Dio fuggendo la società, mentre ora si fugge la società diventata Dio. Il mondo mentale dei ravers merita attenzione, soprattutto dove la ricerca di liberazione ed il “sentirsi tribù” incontrano l’uso di sostanze inscritto in una certa “epica della devianza”. Ciascuno di noi è caratterizzato da una propria realtà psico-sociale che va riconosciuta ed affermata. Per fornire a questo processo sufficiente continuità psico-biologica è necessario che la materia cerebrale - di tossicomani, ravers e “persone normali” - sia all’altezza della situazione, cioè venga posta in una dinamica di eventi biochimici capace di adeguarsi alle esigenze del nostro io sociale. La nostra storia altro non è se non un ininterrotto tentativo di ottenere questo riconoscimento unico ed incontestabile: realizzare la propria identità psichica e mentale vuol dire che l’individuo deve rendere conforme lo stato materiale (bio-chimico) del suo cervello agli schemi imposti dall’esterno da realtà potenti che delineano la strada della propria diversità interiore. Questo scopo decide della dignità umana e non ci si può sottrarre, pena l’entropia e la follia. Ma non si tratta di un processo - biologicamente prima e culturalmente poi - neutro. Ciò che il corpo ed il cervello sono dal lato della loro disposizione materiale, silenziosamente e discretamente, dev’essere messo nella condizione di risultare utile alla costruzione di una identità personale emergente (in qualche modo “altra”). Il cervello dell’uomo si auto-regola tramite informazioni che provengono dalla comunicazione, dal rapporto con gli altri e dai valori, cioè dimensioni iscritte in macchine stocio-sociali di generalizzazione.
*Sociologo della devianza e del mutamento sociale