L’insignificanza della singola vita e la cecità fanatica dell’ideologia

L’insignificanza della singola vita e la cecità fanatica dell’ideologia

di Rossano Buccioni
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Martedì 29 Marzo 2022, 10:20

Diversi osservatori hanno letto nei segnali inequivocabili della corporeità dei leader in campo un surrogato agli scarsi risultati dei negoziati di pace tra Russia ed Ucraina, cercando di dedurre dal linguaggio delle emozioni una realtà più generale da cui pronosticare gli esiti del temibile conflitto. Si è ipotizzato che la fredda determinazione di una dichiarazione di guerra potesse celare presunte sintomatologie e che le abilità attoriali nell’indossare una tuta mimetica potessero incarnare la resistenza dell’intero Occidente democratico. Appartiene proprio all’ex impero sovietico la ricerca di rilevanze psicologiche costruite all’interno delle funzioni di polizia politica e “sanità ideologica”, in linea con la tradizione del “dissenso come sintomo” da cui dedurre corrispondenze tra normazione psichica e specchiata adesione partitica, organica ad un pronunciamento politico formalmente istituzionalizzato. Lo psicologo Massimo Recalcati ricorda che «il Novecento ci ha insegnato come la megalomania paranoide dei grandi leader per conquistare il consenso alla guerra necessiti sempre di una condizione predisponente al narcisismo idolatrico: l’ideologia». L’esagerata passione narcisistica per sé stessi costituisce una lente deformante che utilizza il culto della personalità per determinare visioni pericolosamente distorte della realtà, interpretata a partire dalla promozione del sé e dall’auto-riferimento delle sue rappresentazioni. Per contornare sul proprio io la costruzione politica della realtà, l’accecamento narcisistico abbisogna di strategie per il governo del consenso: pugno di ferro, la difesa dei confini enfatizzando minacce esterne e la costruzione del nemico in base a dinamiche di de-umanizzazione. Specchio dell’esagerata auto-considerazione di un ego tirannico, la parzialissima lettura della realtà si nutre anche di sofismi, con la stessa parola “guerra” che viene spesso accuratamente censurata dai media di regime a favore di formule neutre come “operazione speciale” ecc., essendo la divaricazione tra linguaggio e realtà astuzia ricorrente di ogni regime autoritario. La retorica della tirannide ci aveva già abituato nel “secolo breve” a sofismi linguistici che tendevano a nascondere lo scempio della violenza anche nell’ottica di un sinistro senso del dovere come scappatoia deresponsabilizzante nei confronti di tragedie immani cui si dava coscienziosamente quotidiano contributo. L’esito scontato della sintesi di questi elementi è l’insignificanza della singola vita di fronte alla cecità fanatica dell’ideologia. E’ questo il grande vantaggio di cui gode l’autocrate, dato che la lettura democratica della realtà prevede pur sempre la garanzia dello spazio di azione dell’avversario. Il meccanismo è cieco e fatale: più si accentua il valore assoluto/ideologizzante della causa, più perdono valore e dignità le storie e le visioni alternative di persone in carne ed ossa.

Un altro elemento saliente è rappresentato dallo scivolamento della situazione di emergenza all’interno del Sabba psicologico dell’autocrate e dei suoi sodali, con la guerra che costituisce una specie di sbocco obbligato di un perenne risentimento. Lo psicologo David Lazzari afferma che «molte persone si sentono destabilizzate perché arrivano all’appuntamento con la guerra in un momento di grande fragilità emotiva e psicologica, con la pandemia che ci ha mostrato l’inadeguatezza di una visione della salute psichica che distingue nettamente tra sani e malati». L’ esonero tecnologico e la cultura del benessere individualizzato sembrano esporci pericolosamente al ritorno di patimenti e crisi ricorrenti che non siamo più capaci di affrontare e che tolleriamo – a differenza del popolo ucraino - con la progressiva trasformazione del futuro da tempo della promessa a dimensione concreta di minaccia. Per la psicoanalisi l’accecamento nella visione della realtà può dipendere da diversi fattori, con la ribalta narcisistica che tocca il suo apice – subendo qualche smentita - nelle dichiarazioni televisive di apertura e di commento all’andamento delle ostilità. Il corpo dice sempre la verità, riscattando l’inconscio e svelando il frasario segreto dei segni corporei nella coordinazione espressiva. L’autocrate in tv cerca di coincidere pienamente con l’imposizione egolatrica della forza, però il linguaggio del corpo dice sempre più delle parole e basta un’alzata di sopracciglia o altri gesti involontari per esprimere le reali intenzioni molto meglio delle stesse parole. Nel discorso di annuncio delle operazioni militari in Ucraina «il corpo de presidente russo non lascia nessun dubbio sui suoi intenti» (F. Di Fant). Però già le mani bene in vista ed appoggiate alla scrivania, attestavano la coabitazione di due elementi oppositivi: la sicurezza ostentata, ma anche la necessità di ricercare un ancoraggio nel momento della decisione. In quella russa - ed in altre tradizioni dove si sorride poco - l’autorevolezza della persona è grande se la sua espressività si mantiene essenziale, senza concessioni emozionali che minaccino l’alonatura ieratica del potere. L’equilibrio che sorveglia la dichiarazione di guerra lascia trapelare emozione: vi è della rabbia (il leader è costretto a riaffermare muscolarmente una potenza che credeva di per se fonte di dissuasione); del disgusto (attivazione del repertorio inferiorizzante del nemico che come capo annovera un ex comico) e soprattutto, la ferma determinazione a spostare la contesa sul campo a lui maggiormente congeniale - e dove sa di essere più forte - la guerra. Tuttavia, gli eventi bellici sembrano incrinare questo convincimento.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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