Arrivati a fine dicembre si può tentare un consuntivo per l’anno che si sta chiudendo e gettare uno sguardo alle prospettive. Da un punto di vista macroeconomico il 2023 è stata caratterizzato da un progressivo rallentamento della crescita, dopo la robusta ripresa del 2021 e del 2022. Ad un primo trimestre ancora positivo (+0,6%) il secondo è risultato negativo (-0,4%) e il terzo si è mantenuto sui livelli dell’anno precedente (+0,1%). Secondo le stime contenute nell’ultima Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, il governo prevede di chiudere il 2023 con una crescita di +0,8% ma le stime più recenti la rivedono al ribasso, intorno a +0,7%.
Questi valori fanno riferimento al PIL in termini reali, cioè al netto dell’inflazione che nel 2023 ha mostrato segni di rallentamento ma che rimane elevata, intorno al 5%. Si tratta di un valore superiore al target di crescita dei prezzi fissato dalla BCE (+2%) e per questo il Consiglio Direttivo della BCE nell’ultima riunione dello scorso 14 dicembre ha deciso di mantenere invariati i tassi di interesse per le operazioni di rifinanziamento, che oscillano al momento fra il 4% e il 4,75%. L’inflazione è prevista in sensibile riduzione nel 2024 per poi avvicinarsi all’obiettivo del 2% nel 2025. La riduzione dei tassi di interesse da parte della BCE sarà quindi graduale nei prossimi anni. In termini reali il PIL italiano è previsto in crescita dell’1,2% nel 2024 e dell’1,4% nel 2025. Se collochiamo l’andamento dell’economia italiana nel quadro internazionale i segnali sono contrastanti. Nel 2023, al pari del 2022, l’Italia è cresciuta a tassi superiori a quelli dell’area Euro, più di Germania e Francia. A questo risultato hanno contribuito le politiche espansive rese possibili dal venir meno dei vincoli alla finanza pubblica e le risorse messe a disposizione dalla UE per contrastare gli effetti della pandemia. Il recente compromesso raggiunto in sede UE sul patto di stabilità ci ricorda che nei prossimi anni i vincoli di finanza pubblica torneranno ad essere più stringenti.
Abbiamo, però, altri tre anni per utilizzare le risorse del Pnrr.
A questo scopo le riforme sono più importanti della spesa. I problemi strutturali che hanno determinato la bassa crescita degli ultimi decenni sono ancora in piedi e le riforme più incisive previste nel Pnrr sono ancora da attuare. I buoni risultati conseguiti negli ultimi anni, superiori alle aspettative, rischiano di farci ridurre l’attenzione alla necessità di insistere nelle riforme e nel cambiamento. Per fortuna il Pnrr fissa obiettivi non solo in termini procedurali (approvazione di leggi e regolamenti) ma in termini di target quantitativi da raggiungere: dalla durata dei processi al numero di nuovi alloggi per gli studenti universitari. C’è da augurarsi che a questo cambio di metodo corrisponda anche un’effettiva capacità di conseguire i risultati. Le resistenze al cambiamento non mancano e i prossimi anni saranno decisivi per capire se ci limiteremo al rispetto formale degli impegni o saremo capaci di tradurli in impatti effettivi e duraturi.
*Docente di Economia all’Università Politecnica
delle Marche e coordinatore della Fondazione Merloni