Ecco la fine dell’uomo naturale nell’eclissi del benessere sociale

Ecco la fine dell’uomo naturale nell’eclissi del benessere sociale

di Rossano Buccioni
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Martedì 7 Aprile 2020, 11:05
Le accorate quanto sferzanti riflessioni di Papa Francesco nella preghiera speciale per l’emergenza sanitaria - nella desolazione di una piazza San Pietro silenziosa - hanno avuto il significato di una catarsi collettiva. Qualcuno ha ravvisato nella benedizione “Urbi et Orbi” un’attestazione di debolezza, una conferma del tramonto del Sacro nella nostra società e, in un certo senso, del declino della forza sociale del cristianesimo. Anche se Papa Francesco era compreso nel paradosso dell’autoreferenza di sistema (apparentemente era solo, ma seguito da tutto il mondo nel solo modo in cui oggi ci si può sentire partecipi di qualcosa, cioè in tv o su Internet), la società funzionalmente differenziata solo alla Religione concede ancora spazi di riconferma di quegli orizzonti di significato che, una volta abbandonati dalle dinamiche di accelerazione/razionalizzazione, portano gli individui a credere di salvarsi da soli, «pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato». Le riflessioni del Papa riassumono il paradigma del tramonto del benessere sociale. Il teologo Romano Guardini sosteneva che la cultura postmoderna ha favorito il consolidarsi del potere della tecnica, con la scomparsa dell’elemento naturale che, facendo diventare tutto “storia” come opera dell’uomo, ci ha condotto da un mondo dato ad un mondo costruito dall’uomo. Il mondo voluto dall’uomo ha raggiunto un livello di differenziazione e di omogeneizzazione funzionale così elevato da porre in discussione la stessa corrispondenza tra “sociale” ed “umano”, data la presenza nei sistemi sociali di “macchie cieche”, limiti strutturali che impediscono di osservare il mondo in base a logiche diverse da quelle dei codici immediati dell’agire. Le parole del Papa suscitano un immediato senso di adesione spirituale, perché proprio l’idea di Dio nella storia ha rappresentato l’antidoto più potente contro i limiti imposti (individualmente e socialmente) dalla macchia cieca, dato che, a differenza dell’uomo, Dio si situa contemporaneamente all’esterno ed all’interno delle catene di causazione. Le scienze hanno trasferito la fonte della dignità dell’uomo dalla sfera filosofico/teologica a quella biologica, dove non si accetta alcun limite di intervento, perché con la distruzione del concetto di natura, tutto diventa artificiale e manipolabile, negando senso al concetto di limite. E’ qui una radice profonda dello smarrimento attuale: il limite ci fronteggia e oppone le sue logiche per le quali la nostra società – fondata sull’idolatria della crescita e dello sviluppo – non era pronta. Il quadro storico-sociale in cui emerge la pandemia, oltre ad evidenziare la drastica contrazione del benessere sociale, comporta globalmente l’imporsi di un insieme di nuovi rischi, ossia di minacce inedite sia in termini quantitativi (povertà, inquinamento, ecc.), sia sul piano qualitativo (anomia e forme patologiche mai manifestatesi con tale gravità). La paura per la pandemia in atto è figlia della crisi dell’idea di un benessere soggettivo costruito collettivamente, perché tale corrispondenza non è più al centro dell’interesse culturale né di quello politico. Se nel ‘900 si credeva che il benessere individuale fosse strettamente dipendente da quello collettivo, nell’attuale era planetaria si diffonde l’idea che il benessere personale sia concorrenziale verso quello altrui e, ancor più, che esso vada sacrificato al godimento di beni posizionali, materiali o simbolici. Si tratta di un principio che impatta gravemente sulla biosfera e sulle garanzie di libertà e dignità della persona. Ormai l’altro assume le caratteristiche del concorrente nel campo del lavoro, dei consumi o della ripartizione delle risorse pubbliche; l’altro è visto come estraneo (non conosciuto), pericolosamente mobile (non radicato in un territorio), flessibile (prescinde da specifici habitus culturali). E’ come se oggi, il benessere soggettivo, non faccia più parte della normalità (che piuttosto richiede di dare la priorità ad altri fini), ma all’eccezione, al tempo privilegiato e dunque spiccatamente privato. Diventa allora importante correre più velocemente di chi ci sta vicino, al tempo stesso concorrente e sfuggente, nascosto nell’indifferenza civile che ci richiede e che volentieri gli concediamo. Il benessere può darsi, più in termini materiali che di realizzazione personale, allorché una posizione sociale privilegiata permette di godere il “tempo del lusso”, beneficiando di risorse scarse, anche quando il beneficio ne prevede lo spreco. Viviamo senza benessere sociale perché - specialmente quando è preda dell’emergenza - non costituisce un valore, un obiettivo di auto-realizzazione capace di opporsi al malessere diffuso determinato da un clima sociale virulento e depressivo, diretta espressione di una sempre più ardua neutralizzazione del conflitto. La penuria di benessere sociale riflette una crisi dell’inclusione, con l’allentamento della vecchia socialità di classe, di cerchia e di familiarità che determina una sorta di uscita dalla prossimità, sostituita da una connettività digitale centrata su legami corti, frammentati, instabili. L’assottigliarsi dei vecchi legami di appartenenza, rende le persone sempre meno consapevoli del ruolo del benessere collettivo rispetto al proprio “star bene” individuale. “Pensavamo di essere sani in un mondo malato …”. Da questa crisi non si esce da soli, ma insieme agli altri. Il Papa innalza l’Ostensorio e le campane suonano a distesa, intrecciandosi con le sirene delle tante ambulanze che urlano lo stato di eccezione. La religiosità della medicina e la promessa sanante della religione si tendono ancora la mano, anche se Covid-19 evidenzia l’emergere di minacce collettive riconducibili alla personale mancanza di cura per il mondo.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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