Il regista Avati presenta a Senigallia “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, il fratello produttore: «E' il più bel film di Pupi»

Il regista Avati presenta a Senigallia “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, il fratello produttore: «E' il più bel film di Pupi»
Il regista Avati presenta a Senigallia “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, il fratello produttore: «E' il più bel film di Pupi»
di Sabrina Marinelli
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Martedì 25 Luglio 2023, 07:10 - Ultimo aggiornamento: 13:41

SENIGALLIA - Bologna e i suoi portici fanno da sfondo all’ultimo film di Pupi Avati, pellicola scandita dai ricordi. Il titolo stesso lo è: “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” nel 1964 secondo il calendario liturgico corrispondeva al 24 giugno, giorno del suo matrimonio.


Il giorno speciale


«È il giorno in cui pensavo di essermi garantito la felicità per sempre – racconta il regista Pupi Avati -. Era la ragazza più bella di Bologna, l’ho presa allo sfinimento. Una volta si usava, adesso chiamerebbero i carabinieri. I tre o quattro secondi di silenzio, prima che dicesse di sì, sono stati tremendi».

Un amore che va avanti da 59 anni superando le turbolenze, come ha detto il registra ieri nel corso di una conferenza stampa alla Bice 2 di Senigallia dove, insieme al fratello e produttore Antonio Avati, ha presentato il film trasmesso in serata all’Arena Gabbiano, nell’anno del suo trentennale come ricordato dal responsabile Carmine Imparato, alla presenza del sindaco Massimo Olivetti e dell’assessore alla Cultura Riccardo Pizzi. «È il film più sincero che abbia mai fatto – prosegue Pupi Avati - fortemente autobiografico, fatto da una persona che la vita l’ha già vissuta perché io, alla mia età, ho visto tutte le stagioni. Non ero mai stato vecchio ma ora so cosa vuol dire da persona anziana fare i conti con i limiti che il fisico ti impone». 


La maturità


La maturità del regista si scontra con il passato che riemerge con prepotenza dal film. «Una persona di questa età - afferma - ha il dovere, usando questo strumento magico che è il cinema, di raccontare che cos’è la vita a chi la deve ancora vivere.

C’era poi una componente che io e mio fratello non avevamo mai considerato. Siamo cresciuti senza mio padre, morto di incidente stradale quando io avevo 12 anni e mio fratello 4. Quell’assenza ha fatto si che io sentissi la necessità di parlare a mio padre adesso».

Antonio Avati aggiunge: «Non ero d’accordo a fare un film a Bologna, poi lentamente dopo che ha scritto la sceneggiatura mi sono innamorato di questa storia che è la meno pupiana della nostra carriera cinematografica. Non è un film nostalgico o romantico, ma duro, che racconta di quanto abbiamo sofferto nel passato e dei rapporti umani. È il migliore film di Pupi». «Il mio miglior film - ribatte il regista - è quello che ancora devo fare ma a questo sono molto legato perché incontro mio padre, è come risarcitorio, non l’ho avuto nella vita e l’ho avuto nella finzione. Questo rende il film un po’ speciale». Poi parla degli opinionisti. «C’è una categoria intermedia tra gli spettatori e chi produce eventi, che è totalmente parassitaria, che si sta espandendo in un modo devastante, sono gli opinionisti. Un mestiere da furbastri».


La confusione


Pupi Avati difende il cinema italiano. «Viviamo una stagione orrenda perché c’è una grande confusione tra cinema e serie. C’è anche una differenza tra multisala e sala cinematografica, il rapporto che vogliamo riproporre include l’esercente che vede i film che proietta, segue i commenti del pubblico e te li riferisce. Facendo cinema come lo facciamo noi non si diventa ricchi ma noi abbiamo dato una continuità, passando attraverso le generazioni».

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