Furio Andreotti: «I film possono cambiare la mentalità del possesso».

La famiglia di "C'è ancora domani"
La famiglia di "C'è ancora domani"
di Gloria Satta
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Mercoledì 22 Novembre 2023, 12:38 - Ultimo aggiornamento: 23 Novembre, 06:52

La violenza sulle donne raccontata da un uomo.

Furio Andreotti, 58 anni, ha sceneggiato con Paola Cortellesi e Giulia Calenda C'è ancora domani , il film-fenomeno diretto dall'attrice romana, anche protagonista, che sta sbancando i botteghini. Al centro della storia c'è Delia, una popolana di Testaccio, vittima di abusi  domestici e umiliazioni nell'Italia del 1946 alla vigilia del referendum istituzionale che, per la prima volta, concederà il voto alle donne.
Anche Andreotti, collaboratore di Cortellesi per tanti successi ( Scusate se esisto, Come un gatto in tangenziale , la serie Petra ), attualmente al lavoro sul film di Cristina Comencini Il treno dei bambini, è rimasto colpito dalla commozione che il film suscita nel pubblico, non solo femminile, e dagli applausi liberatori che lo accolgono in sala. 
Con che spirito ha affrontato la sceneggiatura di questo film? 
«Premetto che sono gay. E nel mettermi al lavoro con Paola e Giulia che, in quanto donne, rappresentano una minoranza, ho portato in dote la mia esperienza. Anche noi omosessuali rappresentiamo una minoranza segnata da una storia di pregiudizi e discriminazioni. Io non ne ho subite, sono stato fortunato, ma siamo partiti da questa certezza e durante la scrittura corale del film abbiamo fatto il punto sulla situazione attuale». 
E cosa hai scoperto? 
«Sul piano della parità, negli ultimi tempi si sono fatti passi da gigante. Sarebbe ipocrita negarlo. Ma nella società pregiudizi e ingiustizie contro le donne ancora resistono».
Come si manifestano? 
«Innanzitutto nel concetto di possedere che ancora, inesorabilmente, caratterizza le dinamiche tra i sessi. È un retaggio atavico che stenta a svanire e porta l'uomo a considerare la donna un bene di sua proprietà: glielo hanno consentito per secoli le leggi che gli permettevano di tradire, picchiare, ripudiare la compagna. E tutto questo si riverbera drammaticamente nel presente». 
In che modo? 
«L'uomo non ha ancora imparato a gestire l'abbandono. Del resto la legge sul divorzio non ha nemmeno 50 anni...E quando una donna decide di lasciare il compagno, lui non lo accetta e perde la testa: è questa l'origine dei femminicidi».
C'è un modo, secondo lei, per arginare questa piaga? 
«Bisogna fare un grande lavoro culturale, partendo dal maschio. Quando una donna viene ammazzata, i media si concentrano sulla vittima ma nessuno parla dell'assassino: il più delle volte non è un mostro, ma a sua volta la vittima di un retaggio culturale sbagliato, aberrante».
Ed è possibile neutralizzarlo? 
«Si deve cominciare nelle scuole, dalle famiglie, insegnando ai maschi il rispetto per l'altro sesso e portandoli a una nuova consapevolezza. Le mamme hanno una grande responsabilità: non dovrebbero più dire frasi come ”non fare la femminuccia”, non a caso pronunciata da una donna del film. Paola ha spiegato che l'idea di C'è ancora domani le è stata suggerita da un'immagine che le frullava nella testa: una donna che ogni mattina si sveglia un minuto dopo il marito, riceve da lui uno schiaffo e lo accetta come se fosse normale». 
Ottorino, il suocero-orco di Delia, insegna al figlio Ivano come ”addomesticare” la moglie picchiandola «poche volte ma forte». Che effetto le ha fatto scrivere quella scena? 
«Ho pensato che dietro la violenza sulle donne c'è spesso l'appoggio delle famiglie, quell'omertà che unita alla vergogna sociale porta a tenere nascosti gli abusi. Per una donna che denuncia le botte, tantissime li fanno passare sotto silenzio».
Ma sono tutti come l'imperdonabile Ivano, i mariti? 
«Assolutamente no, infatti il ​​film descrive uomini diversi: il fruttivendolo Peppe, gentile e solidale con la moglie, e il meccanico Nino, primo amore di Delia, un lavoratore ricco di dignità e rispetto».
Quale femminicidio l'ha colpita di più? 
«Il caso di Giulia Tramontano, uccisa a coltellate dal fidanzato che prima, per settimane, aveva tentato di fare fuori con il veleno per topi lei e il bambino ospitato nel suo grembo. È una storia così atroce che, se fosse una sceneggiatura, non risulterebbe credibile». 
Il cinema ha il potere di cambiare la mentalità, di abbattere le ingiustizie? 
«Senza dubbio. E lo stile del racconto è fondamentale. In un film si possono dire cose serissime, importanti senza rinunciare a far sorridere. È la “missione” di Paola che ha sempre voluto arrivare a un pubblico più ampio possibile. E anche questa volta ci è riuscita». 

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