Consorzio di Bonifica, il presidente Netti: «L’acqua piovana c’è eccome ma non sappiamo trattenerla»

Su 9 miliardi di metri cubi l’anno ne captiamo solo 75 milioni

Consorzio di Bonifica, il presidente Netti: «L’acqua piovana c’è eccome ma non sappiamo trattenerla»
Consorzio di Bonifica, il presidente Netti: «L’acqua piovana c’è eccome ma non sappiamo trattenerla»
di Véronique Angeletti
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Martedì 21 Febbraio 2023, 03:00
I dati pluviometrici e il livello delle dighe fanno presagire che le Marche nel 2023 avranno ancora più sete degli altri anni. Si prospetta quindi, un grave deficit idrico. Claudio Netti, Presidente del Consorzio Bonifica Marche, quanto è grave la situazione?
«Per il momento siamo in una condizione di assoluto stallo, se non peggiore rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. In particolare per il lago di Cingoli, il più grande delle Marche, che rifornisce, dal punto di vista idropotabile, gran parte della costa marchigiana, da Castelfidardo a Osimo. Poi, c’è il problema della ricarica delle falde che non ha per fortuna interessato tutta la regione, ma solo alcune aree come lo jesino e nel Nord, il Metauro e il Foglia». 
E per quanto riguarda il sud delle Marche?
«Va meglio per quello che riguarda lo scorrimento superficiale delle acque, quindi le portate dei fiumi e lo stato delle falde in generale. Ma rimane il gravissimo problema delle sorgenti che sono state cancellate dal terremoto. La portata della diga di Gerosa, ad esempio, è passata da circa 600 litri al secondo l’anno scorso agli attuali 200. Il che mette in crisi gran parte dell’ascolano e il fermano, dalle montagne alle aree costiere. E’ poco noto, ma è in corso un razionamento notturno dell’erogazione dell’acqua potabile».
Ma quali sono le soluzioni?
«Trattenere una parte dei 9 miliardi di metri cubi di acqua che cadono ogni anno sulla nostra regione. Oggi ne captiamo una quantità ridicola: 75 milioni. Il quadro è pessimo: le piogge sono più rade e più concentrate, le falde non hanno tempo di ricaricarsi e la piena dei fiumi finisce direttamente in mare senza svolgere nessuna funzione». 
E come se ne esce?
«Avviare un programma di costruzione di grandi dighe non lo ritengo possibile: la geomorfologia del territorio non lo consente. Mentre moltiplicare le vasche di accumulo per l’acqua potabile è del tutto fattibile purché siano funzionali e si lavori anche sulle falde superficiali».
Può spiegare meglio?
«Gli invasi devono avere la corretta massa critica. Troppo piccoli rischiano di trasformarsi in stagni, perché non generano l’autodepurazione. Ma neanche farli giganteschi è una soluzione. Dobbiamo sfruttare gli antichi paesaggi fluviali e andare a riscoprire le antiche vie delle acque soprattutto nelle pianure medio collinari, quelle da cui il corso del fiume si è allontanato».
Con quale obiettivo?
«L’obiettivo deve essere quello di intercettare le piogge, le “bombe d’acqua”, tutti i locali nubifragi. Dobbiamo fare quello che la natura non riesce più a fare da sola: ripartire dal letto del fiume che quando abbandona un sito lascia una massa ghiaiosa, permeabile, e aiutare l’acqua delle piogge a ritrovare gli antichi percorsi».
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