Luca Corinaldesi, anima filottranese: «Il mio ricamificio avviato imparando dalla bisnonna»

Luca Corinaldesi, anima filottranese: «Il mio ricamificio avviato imparando dalla bisnonna»
Luca Corinaldesi, anima filottranese: «Il mio ricamificio avviato imparando dalla bisnonna»
di Véronique Angeletti
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Venerdì 17 Febbraio 2023, 02:50

FILOTTRANO- Il Ricamificio Filottranese è un emblema dell’eccellenza marchigiana che annovera tra i suoi clienti quasi tutte le griffe del lusso. Luca Corinaldesi, 42 anni, a un passo dalla laurea in giurisprudenza, ci racconta la sua azienda?
«È la storia di una impresa fondata dai miei genitori, Anna e Paolo, che furono ispirati per due volte dalla passione della mia bisnonna ricamatrice Maria Gabrielli. La prima volta, 36 anni fa, comprando una macchina per ricamare disegni, più di tutto loghi; la seconda quando intuirono che il futuro dell’azienda non poteva fondarsi sulla quantità bensì sulla qualità, come quando Maria riservava i suoi ricami a una raffinata clientela». 

Quindi? 

«Investirono in macchinari ad alta tecnologia studiati per eseguire lavorazioni su materiali delicati come il cashmere o la seta e, oggi, siamo noi gli artefici dell’upgrade dei nostri software e usiamo le macchine come il prolungamento delle dita e dell’ago». 

Il 4.0 regala tecnologia a un’antica arte... 

«Sì, ma non sarebbe artigianato d’eccellenza senza l’uomo, senza il suo saper fare.

Ognuno, nella catena di lavoro nella nostra azienda, si distingue per le proprie competenze. In ufficio ci sono i programmatori, che spesso provengono dai licei artistici, usano i vari software come dei pennelli e traducono le richieste, anche estreme, dei clienti, in idee creative e punti sui tessuti. Poi in una sala, con immense finestre che si affacciano sulle colline di Filottrano, ci sono le ricamatrici a mano. Infine, nel laboratorio, gli operatori seguono sulle macchine i vari passaggi e si dedicano magari a un solo capo. La nostra specialità è il ricamo esclusivo». 

Un esempio? 

«L’anno scorso abbiamo realizzato un abito che, solo per farne l’impianto, ha impegnato quattro programmatori per venti giorni mentre per realizzarlo, l’operatore ha lavorato altri quaranta giorni. Per non parlare del tessuto per una gonna di quattro metri per due interamente realizzato a punto croce. Un punto che abbiamo creato e che ci lega al brand per cui lo abbiamo ideato. È questo tipo di know how che le griffe ricercano ed è questo sapere che sta all’origine delle dinamiche che animano il settore della moda dove grandi gruppi cercano di acquistare le realtà che custodiscono esperienze e conoscenze». 

Quali sono le figure di cui avete bisogno? 

«Se hanno esperienza, entrano in azienda e, con un tutoraggio, sono subito operative. Ma non capita quasi mai, pertanto abbiamo organizzato una formazione interna. Comunque, le figure difficili da reperire sul mercato sono le ricamatrici a mano. Prima c’era l’usanza di imparare l’arte del ricamo dalle nonne, dalla sarta, spesso dalle suore. Ed è questa manualità, questa antica arte che le griffe vogliono da noi italiani». 

Questo gap di trasmissione di competenze come lo si può colmare? 

«Dialogando. Prima di tutto cancellando il pregiudizio che il liceo sia una scuola migliore degli istituti tecnici e questo possiamo farlo instaurando un dialogo tra le imprese e le famiglie per far capire che un mestiere è un lavoro nobile, che ha degli sbocchi lavorativi e regala soddisfazioni anche dal punto di vista remunerativo. Poi, far capire alla comunità, alle Istituzioni che i mestieri sono dei patrimoni immateriali che si tutelano solo tramandandoli». 

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