L’ingegnere Rossi-Ganzer sulle energie rinnovabili: «Turbine del futuro a galla sull’acqua». Ecco perché l'Adriatico è il mare ideale

Una pala eolica su fondazione galleggiante
Una pala eolica su fondazione galleggiante
di Lucilla Niccolini
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Mercoledì 4 Maggio 2022, 02:50 - Ultimo aggiornamento: 5 Maggio, 10:33

ANCONA - Si parla molto di energia rinnovabile, in particolare di sfruttamento di quanto possa offrire il mare con correnti, onde e vento. Ma per la tecnologia più industrializzata, la pala eolica, in Italia si parla ancora poco di cantieri, tecnologie e spazi dedicati alla realizzazione delle strutture di fondazione e supporto, fisse o galleggianti, da posizionare strategicamente nei distretti marini più promettenti dal punto di vista energetico.
Ingegnere, a che punto è la tecnologia al riguardo?

 
«La tecnologia per le fondazioni che reggono le turbine eoliche in mare è simile a quella, già matura, per la costruzione delle fondazioni che sorreggono le piattaforme di estrazione degli idrocarburi, sia che si parli di strutture reticolari o grandi pali che si ancorano al fondo del mare, sia che si parli di fondazioni galleggianti. La grande differenza sta nelle quantità: mentre le piattaforme petrolifere sono progetti per lo più unici, un campo eolico a mare è tipicamente composto da 50-70 turbine eoliche; le fondazioni che le reggono sono elementi che superano facilmente le 1000 tonnellate l’uno, per arrivare fino a 3-4000 tonnellate per i sistemi galleggianti. Questo impone un approccio di progettazione, che esalti la semplificazione di costruzione e installazione, la ripetibilità, la standardizzazione delle operazioni, la loro meccanizzazione, e l’esecuzione in sicurezza».


Per i cantieri che possono realizzare tali strutture, quali problemi e quali tecnologie per una fabbricazione in serie?
«Primo elemento è lo spazio. La componente più rilevante è il costo dei mezzi di installazione a mare: tali grandi navi arrivano a costare fino a 500 mila dollari al giorno, e i progetti non si possono permettere tempi di attesa per tali mezzi: alimentarli in maniera efficace vuole dire costruire, a regime, fino a 100 elementi di fondazioni all’anno. Questo richiede spazio di costruzione e di stoccaggio. E lo spazio deve essere adeguato, quindi con affaccio sul mare e con portanza del suolo non usuale. Tutta la catena produttiva deve essere progettata per aderire al programma complessivo, eliminando i colli di bottiglia. La costruzione differisce da quella delle strutture petrolifere, diventa un processo simile a quello della catena di montaggio dell’automotive. Si spostano i pezzi e non gli uomini; le stazioni di lavoro ripetono le stesse operazioni, eseguite per lo più da macchine robotizzate; il processo è studiato a monte e il monitoraggio indica l’aderenza allo schema di progetto dei flussi. Gli imprevisti sono analizzati in simulatori, che ridistribuiscono la produzione; i controlli di qualità sono in linea. Quindi, la caratteristica principale è una mentalità produttiva manifatturiera, rispetto alle costruzioni tipiche dell’Oil&Gas, spesso uniche».


Qual è il contributo della digitalizzazione?
«La catena produttiva del progetto prevede acquisti di migliaia di elementi in tutto il mondo, prefabbricazioni di sottoinsiemi, eseguite da terzi, linee di produzione studiate per alimentare in maniera programmata le stazioni finali di assemblaggio, logistica di stoccaggio e di trasporto nei luoghi di installazione con flotte di mezzi subappaltati, programma di installazione finale soggetto alle condizioni del mare… Questa catena, esaltata dal numero degli elementi da fornire, ha svariati incroci e correlazioni, che possono incidere pesantemente sui risultati di progetto. Il controllo di tale processo non può che essere digitalizzato, partendo dalla fase progettuale, in cui ogni elemento è identificato in maniera univoca, e quindi seguito nel programma globale e controllato nella sua fornitura, produzione, qualità, nel suo costo. Il processo digitalizzato deve dare al project manager, al cliente e a tutti gli operatori coinvolti una fotografia sempre aggiornata sulla situazione di programma, di costo e di qualità, e permettere l’identificazione di soluzioni adeguate in caso di correzioni necessarie».


Per l’eolico, strutture fisse o galleggianti? Quali sono le rispettive criticità?
«Una premessa: nel mare Mediterraneo, le aree di forte vento (Marsiglia, Sardegna, Sicilia...) hanno per lo più fondali che non permettono l’uso di fondazioni fisse ancorate al fondo marino.

L’unico mare con fondali simili a quelli del Nord Europa è l’Adriatico, ma con venti deboli e poco costanti. In futuro, nei nostri mari ci si dovrà necessariamente orientare verso fondazioni galleggianti. Tali fondazioni sono più complesse dal punto di vista progettuale, più grandi e quindi più costose. Ma permettono l’installazione di turbine più grandi, di futura generazione, da 12 MW l’una in su. Permettono anche l’installazione della turbina a banchina, con trasporto nella posizione finale dell’insieme fondazione-turbina, riducendo pesantemente i costi d’installazione a mare e i rischi insiti nelle condizioni atmosferiche. Quindi complessivamente la soluzione “galleggiante” ha elementi per essere attraente».


Esistono prototipi promettenti?
«La tecnologia è ancora immatura. Nel mondo sono stati finora costruiti prototipi in scale ridotte, e anche in scale reali, per eseguire test completi durante la vita operativa. Paesi come la Francia, la Corea, la Norvegia, la Scozia e la Spagna hanno deciso di scommettere su tali sviluppi, ma non esistono ancora campi sviluppati completamente. Le tecnologie proposte sono varie, e non esiste ancora uno standard di riferimento. Si va da elementi tipo grandi ciambelle salvagente a elementi semi-sommersi, a elementi verticali immersi per la maggior parte. Tali fondazioni sono prodotte con strutture simili a quelle delle navi, cioè con lamiere rinforzate, e questo favorisce l’esperienza dei cantieri navali. Ma gli spazi necessari non sono tipici dei cantieri navali, e l’industria deve trovare un equilibrio o delle modalità di integrazione delle vari esperienze».


Esistono cantieri italiani impegnati in questa tecnologia?
«Sostanzialmente sono solo all’estero. In Italia, la Saipem ha 3 diversi concetti, che ha studiato, progettato e qualificato in bacini di prova, e che propone nelle gare ai clienti internazionali. Anche Fincantieri si sta proponendo, forte della propria esperienza costruttiva di tipo navale. I  tempi per lo sviluppo effettivo nei nostri mari non sono immediati: non meno di 6-7 anni, in quanto si deve passare per una fase sperimentale in scala reale».


Quali altre criticità per un contractor che ha già esperienza nell’Oil&Gas?
«Una è rappresentata dalla separazione dei contratti tra chi deve progettare, costruire e installare le fondazioni e chi invece fornisce la parte produttiva, la turbina con le pale e il “palo” che la regge. L’oggetto globale è unico dal punto di vista strutturale, ma la progettazione è spezzata tra i due soggetti, anche per una protezione di know-how da parte del produttore delle turbine. Questo comporta un iter complesso e lungo, per trovare una soluzione progettuale, non sempre ottimizzata. Un altro elemento critico per un main contractor che opera nel mercato dell’Oil&Gas è un livello di rischio contrattualmente inusuale: i progetti eolici sono per lo più assegnati dai governi ai concessionari sulla base di prezzi del KW già fissati in fase di gara. Sono per lo più progetti finanziati, quindi con scarsissimo margine di assorbimento degli imprevisti. Tali imprevisti, di tutti i tipi, vengono scaricati totalmente sul main contractor finale. Questo elemento, insieme alla “ripetitività” degli oggetti, può portare alla esaltazione di un elemento sottostimato o errato, con conseguenze pesantissime sul risultato di progetto complessivo. Molti contattori dell’Oil&Gas si sono bruciati sui primi progetti e hanno deciso di abbandonare tale mercato».

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