L'architetto Montalboddi: «I pomeriggi nell’aia tra matita e fantasia»

L'architetto Montalboddi: «I pomeriggi nell’aia tra matita e fantasia»
L'architetto Montalboddi: «I pomeriggi nell’aia tra matita e fantasia»
di Valentina Berdozzi
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Domenica 7 Gennaio 2024, 02:10 - Ultimo aggiornamento: 8 Gennaio, 07:24

Dalla nebbia può capitare che riemerga una schiera di figure. Ci fanno compagnia dal loro mondo, da dove si affacciano a riempire ricordi spensierati di pomeriggi in cui bastava poco per essere felici, giusto un foglio di carta e una matita. Sono personaggi mai esistiti eppure così reali, così tangibili, così palpabilmente nostri; non hanno un corpo ma sono una presenza solida; e per di più hanno un’anima: sottile, ma ben visibile. Soprattutto, hanno una vita: non certo la loro, ma quella di chi quei personaggi li ha creati dal nulla, su un figlio di carta trovato in giro per casa e diventato la tela bianca del pittore, la pagina immacolata dello scrittore, la stoffa del sarto. È la vita di chi li ha disegnati, dando forma a un’idea venuta in mente, a un’abilità precisa, al sogno di vivere quelle situazioni di cui i protagonisti erano quella schiera di calciatori, cavalli e cowboy che, confessa l’architetto Mario Montalboddi, sono stati la compagnia vera di un’infanzia in cui, con carta e matita, ha inventato un mondo. 

Il racconto

La loro bidimensionalità non è un limite: è anzi tutta lì la loro forza, garante di quella permanenza storica che attraversa i decenni e affonda le radici «negli anni più veri e profondi dell’infanzia, prima ancora delle scuole elementari e del tempo in cui cominciare ad avere a che fare seriamente con penne, matite e quaderni - ride l’architetto - ho semplicemente dato retta a quella spinta che veniva da dentro e mi imponeva di riprodurre sul foglio quello che vedevo nel mondo e, soprattutto, quello che dell’universo mi piaceva, che erano appunto cavalli, cavalieri e giocatori di calcio», spiega il professionista nativo di Corridonia (dove ha il suo studio) e residente a Monte San Giusto. La grande aia davanti casa, quella «dove ci ritrovavamo con i miei amici a giocare a calcio e dove non eravamo mai meno di quindici ragazzini», è diventata il terreno di gioco della passione per il disegno, «perché quello che riportavo sul foglio veniva proprio da lì, dal cuore pulsante di quello che mi piaceva e mi appassionava». C’era una volta, allora, il calcio giocato.

E poi c’erano anche loro, le loro maestà illustrissime dell’infanzia di milioni di bambini: le figurine dell’album Panini. Perché c’era chi le collezionava, chi le scambiava e chi, invece, ne ha fatto un originalissimo orizzonte da cui studiare le forme, l’anatomia, la plastica dei giocatori, per ritratti sempre più veritieri e impeccabili.

L'album Panini

«Nella memoria è ancora presente, pagina per pagina, volto per volto, nome per nome il primo album Panini collezionato in vita mia - comincia Montalboddi - era il campionato 1963-64, vinto dal Bologna. Furono pagine e pagine di campioni che consumai mani, mina e fantasia a riprodurre centimetro per centimetro. Era una straordinaria galleria di fisici scolpiti, di capelli sistemati ad arte ed espressioni che viravano dal sorriso impacciato e appena accennato di chi non si sentiva a suo agio al momento in cui era stata scattata la foto per la figurina a quello più deciso e spavaldo dei veterani e dei sicuri di sé. Erano la mia fonte di ispirazione più autentica e funzionale e affinai così tanto l’arte del ritratto da figurina che, effettivamente, finii per saper riprodurre alla perfezione le parti del corpo visibili dalle figurine». Per chi ha l’arte nel cuore, ogni respiro è arte, ogni elemento è arte, ogni occasione è arte. Lo sono state anche le lezioni alla televisione di Alberto Manzi e del suo “Non è mai troppo tardi”, quando «alla lavagna tracciava disegnini e piccoli scarabocchi da cui rimanevo colpito e impressionato - confessa l’architetto - abituato alle inquadrature nel suo studio televisivo e in quelle dei programmi di una tv che da pochi anni era entrata nelle case degli italiani. Iniziai a familiarizzare con il concetto di pubblico, che inserii piano piano nelle mie creazioni che, a quel punto, narravano delle gesta eroiche dei miei paladini del calcio difronte agli occhi entusiasti di spettatori che riproducevo sugli spalti di stadi gremiti, sempre meno definiti e solo abbozzati via via che si saliva verso l’alto. E al centro di tutto c’erano loro, i miei eroi che calciavano, saltavano, si contorcevano in gesta sportive eclatanti e che davano vita ai miei sogni sportivi più profondi».

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