Lo chef Massimo Garofoli: «Guardavo mamma fare il ciambellone»

Lo chef Massimo Garofoli: «Guardavo mamma fare il ciambellone»
Lo chef Massimo Garofoli: «Guardavo mamma fare il ciambellone»
di Valentina Berdozzi
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Domenica 10 Dicembre 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 17:13

Basta davvero poco per portare la magia in tutto quello che facciamo e trasformare una banale routine in qualcosa di straordinario. Un tocco di profumo, un pensiero positivo oppure, come suggeriva la bambinaia più famosa della storia del cinema e del musical, un poco di zucchero, in grado persino di indorare la pillola più amara e rendere accettabile il più antipatico dei compiti. Poco davvero: per cambiare prospettiva, per insaporire la vista e rendere la vita una scoperta sensazionale.

Un tocco aggraziato, che abbia la forza e la potenza di innescare quel viaggio di scoperta che, nella cucina del suo ristorante di Civitanova, chef Massimo Garofoli porta in tavola attraverso piatti che raccontano tanto di sé e di un amore sconfinato per l’arte a tutto tondo, che declina in cucina così come nella musica jazz che ascolta o nell’idea più alta di creatività che coltiva.


La convinzione


La convinzione è granitica e l’emozione nel raccontare quell’ingrediente segreto si fa palpabile, in un viaggio a ritroso che porta lo chef alle ore insospettabili passate con mamma Gabriella a preparare dolci: «La sua specialità erano i ciambelloni, come tradizione comanda - comincia - ricordo con dolcezza quei pomeriggi in cui lei confezionava queste piccole grandi opere e io le stavo accanto, prima solo come spettatore e, poi, a cimentarmi anche io con uova e farina. Piano piano, il solo guardare è diventato voglia di fare e, poi, vera e propria sfida. Tra me e mamma era una gara, anche se a chi andasse la vittoria era scontato: io ero piccolo e lei era troppo brava per essere superata. Ripenso con tanta dolcezza a quei momenti e non solo per quello di buono che preparavamo - sorride - allora la carriera da chef era una prospettiva del tutto avulsa dalla mia vita. Mi impiastricciavo le mani con gioia ma senza la minima contezza di quello che sarebbe stato di lì a poco tempo, quando una scintilla ha rivoluzionato la mia vita e il futuro si è fatto concreto» chiude.

Quel momento lì, impalpabile e veloce, è uno di quegli attimi in grado di imprimere alla vita una svolta netta, sebbene con la dolcezza di un’epifania che si fa aurora e poi alba, flebile intuizione prima e meraviglioso chiarore poi.

Un attimo circoscritto, che l’uomo di oggi ricorda alla perfezione: «Ho vissuto l’infanzia con la convinzione che, da grande, avrei fatto l’architetto - confessa Massimo - vuoi per il fatto che mio padre, muratore, avesse una ditta edile, vuoi per quella creatività che in qualche modo è scorsa sempre nelle mie vene in maniera più o meno carsica, ma il mio destino era già deciso. Fino al giorno in cui, in terza media, misi piede all’istituto alberghiero di Tolentino: fu decisamente amore a prima vista. Rimasi così tanto colpito da quella realtà da volermi iscrivere subito, in barba all’architettura e a un destino che sembrava quasi scritto».

A insaporire un piatto così gustoso, sono arrivate tante esperienze in giro per l’Italia e nel mondo, brigate di ogni dove, chef stellati e riconoscimenti scolpiti nel cuore. Ma, più di tutti, si è fatta strada un’idea fortissima, «la convinzione che in cucina la creatività è tutto» sancisce Garofoli.

Una consapevolezza giunta a suon di musica: «Era il 1997 quando con lo chef Guido Iosa, con cui allora lavoravo all’Osteria della Vigna a Gabicce Mare, misi piede per la prima volta all’Umbia Jazz. Fu la seconda epifania della mia vita: sentire come, partendo da una melodia nota e con la sola forza dell’improvvisazione, i musicisti creavano arte e meraviglia sempre inedite e sorprendenti mi fece capire che in cucina, con ingredienti di qualità, potevo creare piatti dal sapore nuovo e diverso, amplificato al massimo e mai scontato. Una convinzione rinsaldata otto anni dopo di fronte alla mostra su Picasso visitata con il collega Michele Alesiani quando andammo in Spagna per mangiare dal grande Ferran Adria’: vedere come l’immenso pittore avesse creato così tante sue reinterpretazioni del celebre dipinto La Sagrada Familia di Velazquez, mi fece capire che tutto può essere rielaborato, stravolto e reso ancora più sorprendente. Mi dissi che anche io dovevo fare la stessa cosa che Picasso aveva fatto con il quadro del suo predecessore e capii che, per rendere davvero mia la mia cucina, dovevo ispirarmi all’arte che sta oltre i fornelli e portarla nei miei piatti».

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