Siamo sempre, costantemente, di corsa. Sopraffatti da una miriade di impegni. Sballottati, senza fiato, in una routine che procede macinando le ore in un tritacarne dove finisce tutto. Dicono che sia questo il male dei tempi moderni: l'inarrestabile progressione di quel moto perpetuo tra un dovere e l'altro che ci impedisce di godere fino in fondo di ogni respiro. Erano diversi i tempi in cui a correre via veloci erano i pomeriggi all'aria aperta, passati a rincorrere le nuvole, lungo strade in discesa, o a cercare di fermare la palla su un campo di ghiaia. Giura di ricordarseli bene quei momenti, Maurizio Federici, responsabile della sede di Cingoli della Cna.
La vita adulta difficilmente è riuscita a contenere la verve di un tipo che si è fatto grande correndo. A perdifiato, per l'esattezza, con la bicicletta o sui carrozzoni confezionati con gli amici, lungo la discesa che, dal monte San Vicino, arrivava fino a Frontale, la frazione di Apiro dove è cresciuto «come un bambino come tanti - ammette - scendendo in piazza a una certa ora del giorno e rincasando solo quando era notte».
I giochi
Oppure quando - ricorda - «la palla arrivava nelle mani di Fiore, l'anziano della casa che si affacciava in piazza. Non sono stati pochi i palloni che ci ha distrutto per la sola colpa di essergli finiti sul balcone. Immolati sull'altare dei nostri pomeriggi in libertà, quei palloni erano merce preziosissima: chi arrivava in piazza con uno in mano, comandava - ride Maurizio - a lui l'onere di scegliere i giocatori e di comporre la sua squadra, prima che il fischio d'inizio trasformasse la piazza in discesa di Frontale in un vero e proprio stadio». Il fiatone di allora oggi è risata, nostalgia, e il sudore che da bambino imperlava la fronte, da adulto, diventa un sorriso che si scioglie dolce sul volto. Le ginocchia sbucciate sono solo un ricordo: «si giocava e basta, a ogni costo. Anche quando il comune fece costruire un campo di calcio per noi ragazzi in ghiaia rossa: non era affatto raro tornare a casa con escoriazioni e ferite praticamente dappertutto».
Ogni partita ha la sua contropartita. L'ha imparato presto Maurizio, quando la voglia di libertà si è trasformata in un pomeriggio rimasto impresso nella memoria: «Mamma era uscita e, per paura che io e mio fratello Simone ne combinassimo una delle nostre, ci chiuse in cantina, pensando che da lì non saremmo mai riusciti a scappare e a metterci in pericolo.
Il motorino
La stessa di quando Maurizio era un ragazzo e il mezzo di tante peripezie era il motorino di nonno Antimo, «detto Elio - precisa - era il padre di mia madre, un personaggio davvero incredibile e pittoresco. Partigiano nell'immediato dopoguerra, per vivere realizzava lapidi per il cimitero, ma si adattava a fare di tutto, compreso maneggiare motori e motorini. Al suo fianco zio Dario, il fratello di mia madre, ben presto scelse quella di meccanico come professione: adoravo passare le giornate con lui, a montare e smontare i motori. Con zio Dario, nonno e con il motorino che mi diede un giorno, la mia passione per le moto ha mosso i primi passi». Un campione di capelli spettinati e vento in faccia. Nulla a che vedere, allora, con il somaro dalle orecchie lunghe che fu «la maschera che con i compagni di classe delle elementari scegliemmo un anno per il celebre carnevale di Frontale, chiara allusione a quello che, di noi Pinocchi, spesso dicevano le maestre».