Nel dramma di un giovane l’effetto soglia si è determinato solo in modo occasionale

Nel dramma di un giovane l’effetto soglia si è determinato solo in modo occasionale

di Rossano Buccioni
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Martedì 14 Settembre 2021, 10:30

Nicolas Matteucci, un giovane di 21 anni di Sant’Angelo in Vado, decidendo di non fermarsi dopo aver provocato un incidente stradale, viene rintracciato dai carabinieri allertati dalla conducente dell’altra vettura che aveva annotato il numero di targa. Quando i militari sono arrivati a casa del ragazzo, questi ha chiesto di recarsi in un’altra stanza dove ha preso il suo fucile da caccia e si è sparato, morendo sul colpo. Questo tragico evento mette a nudo la drammatica evanescenza del sistema di personalità del giovane, campo minato della contingenza, al punto che l’ “effetto soglia” si è determinato in modo occasionale, il senso dell’esistere consegnandosi al capriccio delle circostanze. In casi simili, anche la diagnostica specializzata non ricolma il vuoto creatosi, dato che tragedie come questa squadernano l’inessenzialità di circuiti esistenziali posti in collegamento col fatto che la nostra è un’epoca deprivata di qualsiasi dimensione tragica. Nelle culture pre-moderne quando un uomo o una donna si ponevano ai margini delle attese di comportamento rompendo l’asse tra “sociale e morale”, i corsi di azione finivano per ripercuotersi sull’ordine cosmico con il pensiero tragico che definiva le forme di un divenire profondo concatenando tutte le entità. Nella visione tragica il divenire non è ciò che accade agli esseri nella loro singolarità, ma una dimensione fondamentale che unifica le traiettorie di senso, con gli esseri umani che non sono mai soli dato che ciò che li riguarda è importante per l’intero universo. La dimensione tragica dell’esistere non contempla individui separati dal contesto che li concerne. Nella nostra epoca dilegua il senso del tragico che lascia il posto alla sola dimensione del grave. Il suicidio di un giovane per futili motivi è grave, ma blocca inesorabilmente l’accesso alla comune dimensione dell’essere che mi fa chinare su chi ha bisogno, creando le condizioni necessarie ad evitare altre simili tragedie. La devastata combinatoria psichica a partire da un movente del tutto trascurabile per l’osservatore esterno, ha definitivamente varato un progetto di auto-annientamento che forse covava da tempo nei precari equilibri del ragazzo. Nel nostro tempo, i condizionamenti raffinati, le patenti oppressioni e l’enorme disagio sociale non sono più vissuti come una scandalosa condizione che predispone alla ricerca di un assetto sociale diverso, ma semplicemente come una dura ed ineluttabile realtà, cioè come problemi da risolvere. Al contrario, il tragico è quell’elemento che conferisce alla realtà un’intensità tale che tra “micro” e “macro”, si stabilisce una correlazione universale che prende corpo in eventi concreti che parlano a tutti proprio perché anticipano lo specifico di ognuno. Al contrario, il globale inteso come insieme generico di parti, dovrà inerzialmente rivolgersi al “chiunque”, per ciò spesso ignorando ogni singolarità. Perdendo la dimensione del tragico, la solitudine del cittadino globale prevede la difesa autoreferenziale del teatro egoico come solo orizzonte della vita.

Nella nostra società, dove i corpi diventano macchine funzionanti produttrici di esperienze e depositi bio-chimici di energie da dedicare all’insaziabile io-ruolo costruito mentalmente, la morte è resa centrale dalla preoccupazione snervante di evitarla. La morte diviene qualcosa di definitivo, che travolgendo un individuo serializzato, rimanda ad una fine totale, ad una idea di cessazione cui ci prepara la matrice economicistica della realtà. La globalità non rivela nulla a nessuno, ma appunto “funziona” proprio perché pretende di parlare a tutti, di includere tutti senza parlare propriamente a nessuno. La tendenziale inclusione di “tutti gli individui in tutti i sistemi di funzione” è infatti chiaramente una inclusione operativa – che dice poco sullo specifico esistenziale dell’individuo – e che si struttura tramite i codici di ciascun sistema di funzione. L’inclusione non fornisce più criteri di identificazione forti ed irreversibili perché non riesce a definire un’appartenenza in termini socio-culturali. Tutto ciò rende impossibile continuare a pensare il sistema di personalità dentro uno sviluppo a tappe, per cui tra tempi interni (psico-biologici) e tempi esterni (sociali) sussista una corrispondenza normativa scandita da una sufficiente coerenza biografica. La personalità si sviluppava solo con l’interiorizzazione dei valori sottesi ai ruoli sociali che l’individuo progressivamente doveva occupare, ma la frammentazione di questi ruoli e l’effrazione del sé – simulacro dell’esplosione della complessità sociale – non consentono più facili rispecchiamenti tra io e mondo, perché nel sistema sociale in cui viviamo i tempi psichici sono spesso inconciliabili con quelli sociali. Lo “psichico” allora diventa sempre più una sfera di realtà autonoma, non deducibile dalle categorizzazioni sociali. Senza uno stabile orientamento dell’agire capace di qualificare la bussola psichica dell’esperire, il giovane adotta meri criteri quantitativi come guida generale per la condotta. L’agire sociale non ha più un criterio integrante e le scelte modulari vengono operate dentro sistemi sociali differenziati che attivano il leveraggio psicologico dell’io-multiplo. Se non esiste più un collante valoriale che cementa l’agire, la persona assumerà le logiche vigenti del sistema economico, con la razionalità strumentale capace di determinare anche gli affetti, le emozioni ed i sentimenti. Per molti giovani la società dell’abbondanza produce una immagine di sé come macchina da guerra che fa propria la “cultura dell’avere, del potere e del volere” (Paul Ricoeur). Ma quella macchina può rompersi facilmente, a Mosca, Madrid o Sant’Angelo in Vado.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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