L’esplosione dei suicidi, il tragico che non fa notizia

L’esplosione dei suicidi, il tragico che non fa notizia

di Rossano Buccioni
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Martedì 7 Giugno 2022, 17:41

Molto scalpore hanno suscitato diversi casi di suicidio nella nostra Regione tra cui quelli riguardanti la tragica fine di due poliziotti e di un carabiniere. Per gli uomini in divisa delle forze dell’ordine andrebbe valutata la delicata quanto temibile dinamica psichica strutturatasi con la propria arma di ordinanza, in condizioni normali primo vettore di riconoscimento e, nell’arbitrato della sofferenza, attributo di deterrenza pubblica rivolto contro di sé, oltre ogni latente causa di servizio, quasi a riservarle il tragico privilegio di dare corso al verdetto fattosi strada lentamente nei labirinti dell’angoscia.

Nel suo saggio sul corpo, il filosofo Umberto Galimberti sostiene che «…la morte è l’assurdo, è ciò che non rientra nell’orizzonte della mia libertà, per cui non può concludere la mia vita, ma può semplicemente porvi fine. Il suicidio non modifica la situazione, perché, se è vero che è un atto della mia vita, è altrettanto vero che è l’ultimo atto, che non lascia dopo di sé un avvenire che, riprendendo il passato, possa conferirgli significato». Diversi studi ispirati dal criterio generale della Seasonality of Suicidal Behavior (suicidarietà stagionale) , confermano che un evidente picco del fenomeno sembra aversi in primavera, anche se tale emergenza sociale ormai riguarda diversi altri periodi dell’anno. Gli approcci più consolidati al fenomeno sostengono che «il suicidio sia un problema di salute pubblica che deve essere esplorato a vari livelli attraverso l’educazione, la conoscenza culturale, e la consapevolezza clinica dei segni e dei sintomi» (Oms). Qui non interessa ricostruire la storia delle diverse interpretazioni del fenomeno suicidario, né ipotizzare a quale livello vi si inseriscano i drammi recentemente occorsi nelle Marche, anche se intendiamo muovere dal tema della condivisione della medesima atmosfera culturale, quella che ha condotto dei nostri simili alla propria auto-soppressione. Dopo l’originaria interdizione religiosa che - dall’antichità fino a tutto il Settecento - pone il suicidio sotto una stretta valutazione giuridico-morale, il fenomeno sarà da mettere in relazione alla progressiva trasformazione sociale dell’idea di uomo (dall’uomo-creatura all’homme machine).

Frammentandosi l’originario monolite dell’illiceità giuridico-teologica dell’atto, solennemente sancita già dalle consuetudini medievali, toccherà alle nascenti scienze sociali occuparsi del fenomeno, interpretato sotto una luce diversa. In effetti, la vigilanza sul suicidio si perpetuerà con le investigazioni di una nutrita falange di scienziati: dagli esperti di statistica agli psichiatri, dai medici legali ai criminologi. Fino agli anni ‘30 del XIX° secolo, alcune “scienze miste” come la statistica morale (originario ambito di convergenza di linee di ricerca che ancora non riescono ad imporsi un obiettivo epistemico definito), identificano nel suicidio un importante indicatore del livello morale di una nazione.

Assecondando la tendenza alla comprensione depenalizzante dei fenomeni che attenua lo stigma sociale, pur rimanendo fatto grave al pari dell’omicidio, nella nascente sociologia, sarà Émile Durkheim a far convergere i risultati delle indagini degli statistici morali e degli scienziati positivisti relativamente alle relazioni tra morte volontaria e comportamenti devianti.

Negli ultimi decenni, le azioni suicidarie risultano influenzate dell’estrema contingenza dei quadri esistenziali, frutto della crescente frammentazione dei contesti sociali in cui la vittima è inserita. Il doppio slegamento (dai valori fondanti e dalla protezione comunitaria) ci regala alle logiche di una società “evanescente”. I rapporti sociali nella c.d “età del rischio” sono largamente informali, mossi da una necessità che si infrange sul caso fortuito e sulla coincidenza inibente, con la solitudine che disegna il modo normale attraverso cui la condizione umana è solita rappresentare i suoi percorsi di senso. Siamo inoltre all’interno di una inedita economia dell’esperienza. Se gli oggetti presupponevano un certo legame libidico, oggi tale legame è ridiscusso, proprio perché limita la capacità di esperire diversamente, cioè di mantenersi disponibili alle trame sempre mutevoli dell’esistere. Siamo divoratori di sensazioni e di esperienze che deriviamo dal consumo delle cose, ma gli oggetti ormai ci interessano come attivatori di informazioni e di sensazioni. Però le informazioni non sono sufficientemente stabili come le merci e questo dato incrina il rapporto individuo/società (già debolissimo) fondato sulla cultura post-capitalistica dell’accesso e non del possesso.

La necessità di mantenersi onnivori nella cultura dell’accesso è basata sulla coazione a fare del sé una piattaforma di definizione identitaria che oggi abbisogna soprattutto di informazioni. Sembra però che molte persone non ne possano più di inscenarsi nell’infosfera e quando tentano di tornare ad un appiglio (le relazioni, le merci, gli oggetti), trovano impossibile ottenere protezione e rispecchiamento perché il mercato - centrato sull’esperire - gli oggetti deve sostituirli insistentemente. Inoltre, il mercato concepisce un prodotto stabilendo anche i contenuti emozionali che deve suscitare, impedendo il tratto individualizzante dell’animazione della cosa che, proprio quando sembra nostra, inizia a resisterci a partire dalle idee altrui di cui è la sintesi. È probabile che la condizione di asfissia simbolica in cui tante persone tentano il suicidio non sia estranea a queste considerazioni di contesto. «Vorrei fare una lunga vacanza nella terra. Mie notizie porterebbe il vetro del mare o qualche animale dal mugugno impigliato nel trabocchetto del buio. (…)» (Remo Pagnanelli).

* Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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