Una strage negli ospizi e l’esplosione dei paradossi della condizione anziana

Una strage negli ospizi e l’esplosione dei paradossi della condizione anziana

di Rossano Buccioni
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Martedì 31 Marzo 2020, 10:30
Il sociologo Jeffrey Alexander, scrisse che i modi e le forme nei quali il male viene rappresentato e percepito in una data comunità umana, costituiscono il frutto di una elaborata costruzione sociale. Lo storico della medicina Henry Sigerist, sosteneva che non si possono comprendere le teorie mediche elaborate in una nazione entro una determinata fase storica, senza conoscere le malattie vissute come rilevanti in quel medesimo contesto storico-sociale. Se la malattia è un fenomeno biologico reale, le dinamiche epidemiologiche che la esprimono sono fortemente condizionate dal contesto sociale. In tal senso, ogni cultura ed ogni epoca avrebbero un proprio “stile patologico” (uno specifico modo in cui la gente ammala), analogo allo stile artistico o alle forme di potere politico. Si tratta di uno stile caratterizzato non solo dai morbi prevalenti, ma anche dai sistemi di significato rappresentativi delle paure collettive che le diverse civiltà e culture a quelli cercano di opporre. Con il concetto di “Patocenosi”, (l’insieme di patologie presenti all’interno di una data popolazione in un’epoca specifica), lo storico del pensiero medico Mirko Grmek, teorizzò una dinamica globale delle malattie, di cui sarebbe possibile determinare frequenza e distribuzione in un dato contesto spazio-temporale. Quando le condizioni ambientali e sociali risultano stabili, la patocenosi tenderebbe verso uno stato di equilibrio, con le nuove malattie che emergerebbero per il suo venir meno, determinato dalla modifica di fattori di natura sia ambientale che sociale. Attraverso una indagine storico-sociale di lungo periodo, si potrebbe ricostruire il processo di definizione dei significati legati all’esperienza del dolore e della sofferenza. Analizzando le loro fasi di trasformazione, osserveremo come nella storia della medicina spesso si parli di malattie “classiche” e malattie “moderne”, introducendo il concetto di transizione epidemiologica, dinamica complessa che inscrive l’emergere di nuove patologie all’interno della trasformazione del rapporto individuo/società. Tra il 1700 ed il 1800 cessò il dominio incontrastato delle epidemie nella mortalità europea ed emersero nuove patologie riferibili alla nascita di un contesto sociale dove i comportamenti e le scelte individuali rivestivano un ruolo fondamentale nel determinare nuove condotte spesso alla base di malattie altrettanto nuove. Quelle tardo-moderne e post-moderne diventeranno dunque “malattie della scelta”, mentre quelle pre-moderne erano malattie di matrice comunitaria, con la totale assenza di mobilità sociale che sanciva la piena convergenza patologica, condannando l’individuo ad ammalare delle stesse patologie delle generazioni precedenti. Mentre nel Medio Evo il popolo minuto moriva di peste o di colera, l’individuo moderno e post-moderno ammalerà in un modo che, sul piano sanitario, esprimerà dinamiche di soggettivazione tipiche della individualizzazione dell’orizzonte di vita. Le malattie della modernità e della post-modernità hanno ovviamente determinato delle rappresentazioni sociali capaci di incanalare la paura della morte. Sappiamo come il Cancro e l’AIDS in particolare, siano diventati autentici catalizzatori delle paure e delle contraddizioni dell’uomo contemporaneo. Questo stato di fatto si è mantenuto sino all’attuale emergenza sanitaria. Nel profondo smarrimento della fase storica che stiamo attraversando, assistiamo alla corsa di un nuovo contagio pandemico che dopo la fuoriuscita dal sacello epidemiologico in cui lo aveva confinato il nostro inconscio collettivo, torna ad infuriare nella società globalizzata, mettendo in scacco il mondo medico (una delle sue espressioni migliori). Anche se negli ultimi trent’anni, quasi ad intervalli regolari, si è imposta un’emergenza virale planetaria, si potrebbe affermare che con il Covid-19 si sia attivata una gigantesca “contro-transizione” epidemiologica, dagli esiti ancora largamente imprevedibili. Con il ritorno della pandemia si ha un ribaltamento di quella che Gremk definiva patocenosi, con il contemporaneo rovesciamento degli universi di pensiero che facevano da corollario alla dimensione patologica “standard” delle società complesse. Se l’avere una banale influenza, fino a qualche mese fa, incarnava l’idea stessa del disturbo lieve, ora configura uno stato di insidioso esordio sintomatico da non sottovalutare. Questo virus ha rimodulato le strategie di simbolizzazione della sofferenza – legata a malattie fortemente rappresentative della nostra epoca – lasciandoci senza filtri culturali per impattare la paura della fine che ora è panica, nuda e immemore. In questa guerra che vede morire soprattutto gli anziani, scompare una generazione che rappresentava una trincea della memoria sociale. Una ecatombe che assottiglia un presidio affettivo della debole “famiglia adolescente” di oggi, spesso privata del sostegno non solo affettivo, ma anche economico per figli o nipoti che stentano nel mercato del lavoro. Le cause di morte statisticamente accertate in Occidente, sembrano oscurate da un flagello che ripropone alla lettera antiche modalità di spopolamento, imperversando su quella condizione anziana che, come sostenuto da Peter Laslett - demografo del Trinity College di Cambridge – risultava già particolarmente a rischio di esclusione, con “un’assistenza sanitaria scadente, la frequente estromissione dal nucleo familiare e la totale dipendenza dagli altri”. La “strage di anziani”- come titolato giorni fa dal Corriere Adriatico - uno dei tanti scomodi retroscena che la pandemia sta portando alla luce, rinforza la tesi dello storico della scienza Michel Serres: il nostro mondo, pur essendo pieno di anziani, ormai non è più un mondo per vecchi.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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