Gli anziani socialmente distanziati e la negazione delle tutele sanitarie

Gli anziani socialmente distanziati e la negazione delle tutele sanitarie

di Rossano Buccioni
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Martedì 10 Novembre 2020, 10:35

Numerose polemiche ha suscitato il tweet di un collaboratore del governatore della Liguria Giovanni Toti che il primo novembre scorso, a proposito dei 25 decessi per Covid 19 registrati in regione, rilevava come si trattasse perlopiù di persone anziane, «non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese». Il critico letterario Alberto Asor Rosa, ha recentemente replicato alla proposta di trincerare in casa gli over 70, sostenendo che vi nasconde un retro-pensiero, quello di «anticipare l’uscita di scena della persona anziana dato che costringere un vecchio dentro le mura domestiche è un modo per anticiparne la morte». Assai prima dell’emergenza pandemica l’anziano risultava socialmente distanziato e spesso istituzionalizzato nelle Rsa, in quanto le moderne rappresentazioni del corpo – in primis quella che ne fa un sofisticato strumento di comunicazione – lo costringono nelle retrovie dei sistemi di significato. Impossibilitati ad assecondare le logiche dell’accelerazione sociale, gli anziani subiscono le tragiche conseguenze di molteplici fenomeni di sclerotizzazione, che li sottraggono alla vita attiva relegandoli in dimensioni comunitarie residuali. Nel caso dell’efficientamento dell’assistenza e del controllo sulle condizioni di salute, il rischio è quello di una drammatica negazione della prossimità che determina l’estromissione della persona anziana dalla sua costellazione psico-affettiva. Tutto ciò perché quello anziano, essendo ormai un corpo improduttivo, cessa di ricevere quelle tutele che legittimano la riproduzione sociale come autentico criterio inclusivo. Di fronte al diffondersi esponenziale del contagio da Covid 19 in Italia, lo scorso Marzo la Società italiana degli anestesisti e rianimatori (Siaarti) rendeva pubblico un documento ufficiale dal titolo “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”. La situazione d’emergenza imponeva la necessità di ridiscutere i criteri universalistici di accesso ai servizi «rendendosi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva». In presenza di un afflusso superiore alle possibilità di ricezione in unità di intervento complesso, la selezione tra chi potrebbe ricevere un trattamento medico adeguato e chi ne risulterebbe escluso, di fatto già tacitamente avviene in forza di criteri anagrafici e biologici, che sostituiscono il classico “first come, first served” (primo arrivato, primo servito). Cercando di semplificare una scelta di per sé indecidibile alla luce dell’antropologia medico-Ippocratica, si pone in subordine l’inevitabile interrogazione morale, facendo in modo che i pre-requisiti di tipo quantitativo corroborino un’auto-evidenza di carattere economicistico. Tale prassi si ispira ad una forte autoreferenza medica (intervenire a beneficio di chi ha più probabilità di salvarsi e vivere più a lungo dopo l’intervento), leggibile alla luce di una indiscutibile sorveglianza economica (destinare risorse scarse a chi - per ragioni anagrafiche – potrà restituire gli interessi dell’investimento sociale deciso a suo vantaggio).

Si intuisce chiaramente il crossing (incrocio) tra medicina ed economia che, disegnando nell’emergenza un’immagine estrema di malato e di malattia, svela anche la loro dipendenza da modelli statuiti e vincenti di vita sana, quelli che impediscono di attribuire valore alla condizione improduttiva delle persone agèe. Questa sottomissione ideologica ad un criterio dettato da un eugenismo di mercato soft, ovviamente sarà ammantata dalla «disperazione di chi, sul terreno, è chiamato a scegliere tra sommersi e salvati, evocando l’etica delle catastrofi, che impone di assumere decisioni di vita e di morte in contesti prima ritenuti impensabili». Ciò che l’emergenza pandemica rubrica come una «condizione eccezionale che motiva la drammatica scelta tra condanna e salvazione» (di persone uguali di fronte alla legge), è in realtà una condizione di esclusione e di limitazione dell’eguaglianza che la condizione anziana subisce da decenni, costruita all’interno di una disumanizzazione tecnologica della relazione ed una alienazione psico-affettiva da ritiro sociale dalla dimensione produttiva. Anche se la tematica ci conduce per un pendio scivoloso che sarebbe prudente evitare, si deve ammettere che la legislazione medica ha costruito la sua eticità post-moderna a partire dall’orrore che proprio ad Auschwitz vide il perfezionamento dell’erste auswal (prima scelta), una prima selezione in base alle condizioni fisiche ed anagrafiche di persone inermi cui avrebbe tragicamente fatto seguito l’insindacabile verdetto di morte o di salvazione. I criteri del Consenso Informato – che trassero ispirazione dal processo di Norimberga - originarono da una riaffermazione pura della dignità della persona. Come argomenta il filosofo Marco Revelli, pur se l’antropologia della scelta prevedeva «una soggettività totalmente diversa, anzi, opposta rispetto alla nostra», nell’attuale unanimismo sacrificale a danno della condizione anziana, non possiamo non cogliere una sinistra logica di fondo accomunata alla corrente inerziale fortissima che a metà del secolo scorso sacrificava milioni di vite alla razionalizzazione imperante (Z. Bauman) ed oggi, consegna troppi “corpi d’amore”, alle mere logiche di mercato e dell’efficientamento. Costretti a coincidere con i bisogni fondamentali che trascurerebbero volentieri se potessero regalare ad altri la loro saggezza, gli anziani si spengono stanchi di una vita offesa da un tempo sbagliato, vedendo degradare nel loro corpo quel mondo che la vita gli consentì di amare e tutelare.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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