Alviero Martini, la società affiancata da un amministratore giudiziario. Ecco cosa è successo, la replica dell'avvocato

di Redazione web
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Mercoledì 17 Gennaio 2024, 20:49 - Ultimo aggiornamento: 23 Gennaio, 14:15

Per ogni tomaia realizzata, ossia per la parte superiore della scarpa, venivano pagati «1,25 euro», «per ogni fibbia rifinita» prendevano «50 centesimi». Riposavano poche ore in «locali adibiti a dormitorio», posti fatiscenti all'interno dei capannoni, mangiavano «direttamente negli alloggi adiacenti al laboratorio» e a fine mese portavano a casa circa 600 euro. 

Sono le condizioni di lavoro a cui erano sottoposti, per incassare, poi, paghe al di sotto della soglia di povertà, i cinesi, in gran parte clandestini, che cucivano negli opifici abusivi scarpe, borse e altri accessori che sul mercato venivano venduti con marchio Alviero Martini, l'azienda di alta moda affiancata da amministratori giudiziari dai giudici Roia-Rispoli-Cucciniello della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano.

A tal proposito l'avvocato Marzia Scura, per conto della Alviero Martini S.p.A. ha inviato una nota che pubblichiamo per interoLe attività illecite oggetto delle indagini della Procura non sono state commesse da Alviero Martini S.p.A. né da soggetti appartenenti alla sua rete autorizzata di fornitori. Il riportato ricorso a “laboratori cinesi” è imputabile esclusivamente a sub-fornitori non autorizzati, illegittimamente inseriti nella filiera produttiva, in violazione dell’espresso e specifico divieto che la Società impone a tutti i propri fornitori. Dalle indagini della procura è emerso che due dei fornitori della Società sono ricorsi a sub-fornitori non autorizzati. Di detta circostanza la Società non era al corrente e sta adottando gli opportuni provvedimenti. 

La Alviero Martini S.p.A. non è soggetta ad alcun commissariamento, termine che implicherebbe la sottoposizione della Società a gestione commissariale in sostituzione degli organi attualmente preposti all’amministrazione, in quanto eventualmente giudicati non idonei. Si significa, al contrario, che non solo la Società e i suoi organi amministrativi non sono in alcun modo indagati per le incresciose condotte appurate dalla Procura di Milano, ma gli stessi continuano ad operare in piena autonomia, salvo l’affiancamento da parte di due Amministratori Giudiziari, incaricati di supportarli nella sola attività di monitoraggio della filiera produttiva. 

 La Alviero Martini S.p.A. non ha tratto alcun profitto dalla commissione degli illeciti riscontrati dalla Procura. La Alviero Martini S.p.A. ha pagato i propri fornitori diretti, incaricati della façon dei prodotti, secondo prezzi di mercato e non ha pertanto tratto alcun profitto dai ricarichi effettuati dagli altri soggetti appartenenti alla catena di produzione non autorizzata mediante illecito sfruttamento del lavoro. I prezzi a cui “i prodotti uscivano dagli opifici cinesi” riportati dalla stampa sono di gran lunga inferiori a quelli pagati dalla Alviero Martini S.p.A., a seguito della catena di rincari, ai propri fornitori autorizzati. I costi in questione, tra l’altro, costituiscono solo una delle voci di costo necessarie per la realizzazione del prodotto finale fino alla immissione in commercio, cui vanno aggiunte, tra l’altro, quelle per l’acquisto e le lavorazioni delle materie prime e degli accessori-  come pellami, tessuti, accessori metallici - e altre innumerevoli voci accessorie quali, a titolo esemplificativo, trasporto, packaging, etichettatura, ecc. 

 

I racconti dei cinesi sfruttati

I loro dei cinesi racconti emergono dai verbali agli atti dell'inchiesta dei carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro, coordinata dai pm Paolo Storari e Luisa Baima Bollone. «Vengo retribuita in base al numero di scarpe lavorate, vengo pagata 1,25 euro a tomaia...non ho mai fatto visite mediche, formazione, non ho mai avuto dpi e non ci sono estintori in azienda», ha spiegato un'operaia agli investigatori.

In fotocopia, in pratica, le altre testimonianze. Quasi tutti, però, hanno detto di «lavorare solo tre ore» al giorno, anche se gli inquirenti hanno accertato, dato l'altissimo numero di pezzi prodotti e i consumi elettrici registrati nei laboratori-loculi, che producevano soprattutto in orari notturni e nei festivi, quando solitamente non vengono effettuati controlli.

 

Dentro questo circuito di «abbattimento dei costi» erano inserite, secondo i magistrati, pure quelle condizioni «degradanti» per i lavoratori: stipati in «micro camere», in ambienti «insalubri, pericolosi per la loro salute e sicurezza», senza «areazione» né «luce naturale», con «impianti elettrici di fortuna», con il cibo vicino alle «sostanze chimiche» e «chiazze di muffa» ovunque. In più, tutti «continuamente sorvegliati», in un laboratorio anche con delle videocamere. E ovviamente niente ferie, malattia e contributi.

 

Anche un morto

Dalle carte, tra l'altro, risulta un caso di un morto sul lavoro, il 24 maggio dello scorso anno: un operaio di 26 anni, originario del Bangladesh, che venne schiacciato dalla caduta di un macchinario in un capannone a Trezzano sul Naviglio, nel Milanese. Il giorno dopo, «per camuffare l'effettivo status di lavoratore in nero», una delle società appaltatrici della catena, ricostruita dai pm, «inviò il modello telematico di assunzione al Centro per l'impiego e agli enti contributivi e assicurativi Inps ed Inail» per regolarizzarlo, dopo che aveva perso la vita.

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