Il conto del lockdown per il Piceno, milioni bruciati e cassaintegrati. Confcommercio: «Situazione devastante»

La zona industriale di Ascoli Piceno
La zona industriale di Ascoli Piceno
di Luca Marcolini
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Venerdì 15 Gennaio 2021, 06:30

ASCOLI - I numeri parlano chiaro. Sono inequivocabili. Il lockdown della scorsa primavera per l’emergenza Covid ha provocato una brusca frenata sul fronte dell’economia locale, immobilizzando per circa tre mesi migliaia di attività e di lavoratori.

Congelando, di conseguenza, importanti fatturati e provocando, in un clima di timore per il futuro, una forte contrazione dei consumi. Sono spietati quanto realistici i dati elaborati dall’Istat che analizzano proprio l’effetto economico del lockdown sulle varie realtà territoriali. 

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I numeri
Basti pensare che ad Ascoli città, durante la chiusura totale per il Covid, a fermarsi del tutto sono state 476 attività industriali e produttive (aziende con un fatturato complessivo in condizioni di normalità calcolato in oltre 416 milioni di euro), con 2.558 addetti (tra cui 2.119 dipendenti che presumibilmente sono finiti in cassa integrazione) rimasti a casa in attesa che si potesse ripartire. Un dato che pesa ulteriormente è quello, sempre relativo al capoluogo piceno, che riguarda le attività di servizi (con un fatturato complessivo calcolato in oltre 88 milioni di euro) bloccate dallo stop imposto dal Governo per l’emergenza Covid: si tratta di 1.383 aziende con a carico 3.488 addetti, tra cui 2.015 dipendenti. Scenario analogo quello a San Benedetto, con 484 attività industriali-produttive “congelate” durante il lockdown con 1.221 addetti, tra cui 781 dipendenti, rimasti temporaneamente a casa oltre a 2.481 attività di servizi, con 6.032 addetti (di cui 3.456 dipendenti), che hanno subìto la stessa sorte. 

L’effetto del lockdown 
Sono numeri eloquenti, quelli elaborati dall’Istat, che testimoniano il grave contraccolpo che l’economia locale ha accusato per la pandemia e che si incrociano con quelli di uno studio della Banca d’Italia dal quale risulta che, nei settori del tessile e dell’abbigliamento (sia per attività di produzione che di servizi), su 13.280 addetti occupati nel distretto occupazionale di Ascoli (ovvero l’ambito del Centro per l’impiego), ben 5.896 (il 44,4%) sono coloro che sono rimasti al palo durante il lockdown, lavorando per aziende che hanno dovuto chiudere.

Tornando all’analisi dell’Istituto nazionale di statistica, la fotografia del sistema economico locale arriva proprio dai dati elaborati su scala comunale. Si tratta di un report che riguarda le industrie (intendendo comunque le attività di produzione di beni) e le aziende del settore servizi che hanno dovuto chiudere durante il lockdown per il Covid e i relativi lavoratori rimasti a casa per quel periodo. Oltre ai due centri più importanti dal punto di vista demografico, ovvero Ascoli e San Benedetto, per fare alcuni esempi, a Comunanza sono state 58 le industrie-attività di produzione che si sono dovute fermare per il lockdown (con 1.253 addetti di cui 1.198 dipendenti) e 111 le attività di servizi (con 213 addetti di cui 85 dipendenti). Ad Arquata del Tronto, nell’epicentro del sisma 2016, 12 le attività industriali sospese (con 36 addetti tra cui 20 dipendenti) e 14 le attività di servizi (con 25 addetti di cui 8 dipendenti). Sono 119, invece, le attività industriali rimaste chiuse ad Offida (con 594 addetti tra cui 453 dipendenti) e 142 le attività di servizi (con 286 addetti di cui 121 dipendenti). Altro dato, quello di Spinetoli, con 117 attività industriali fermate dal provvedimento governativo (con 525 addetti tra cui 400 dipendenti) e 161 attività di servizi (con 376 addetti tra cui 193 dipendenti).

L’analisi di Confcommercio 
«La situazione appare devastante, con grande incertezza sulle prospettive – commenta Costantino Brandozzi della Confcommercio di Ascoli. – Dai dati relativi al lockdown ad oggi, non si vede ancora una via di uscita e questo perché c’è troppa incertezza. Oggi la vita delle nostre imprese è rientrata in uno scenario basato sui colori che rischiano di cambiare addirittura ogni settimana o ogni 15 giorni. E questo crea problemi per gli acquisti dai fornitori, per la programmazione. Nello specifico, i ristoranti, ad esempio, non riescono ad organizzarsi e molte attività sono a piedi proprio per una mancanza di punti di riferimento. Inoltre i ristori non sono tali da garantire una copertura delle spese a fronte di incassi che si sono ridotti del 60-70%».

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