Il preside Rossini, presidente regionale: «I voti? Mica siamo dei ragionieri. Va valutata la prova non l’alunno»

Il preside Rossini: «I voti? Mica siamo dei ragionieri. Va valutata la prova non l’alunno»
Il preside Rossini: «I voti? Mica siamo dei ragionieri. Va valutata la prova non l’alunno»
di Antonio Pio Guerra
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Lunedì 19 Febbraio 2024, 03:55 - Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 15:21

Riccardo Rossini, preside dell’agrario Cecchi di Pesaro e presidente regionale dell’Associazione nazionale presidi, cosa pensa del gesto estremo del liceale di Ancona? 
«Ho pensato alla solidarietà per la famiglia e per la scuola. È una tragedia per tutti». 

 
Una riflessione? 
«Un questi casi è la causa che fa la differenza. Ma se eventi di questo tipo sono sempre più frequenti, ci si dovrebbe interrogare. Sono l’emblema di una generazione resa fragile da noi genitori ed educatori. Dobbiamo correre ai ripari». 
Il disagio del liceale sarà andato oltre quel brutto voto. Però viene da chiedersi: qual è il senso di un 2?
«Nessuno, è solo umiliante. Premetto che io non l’ho mai dato a nessuno studente ma c’è modo e modo di farlo. L’importante è far capire al ragazzo che il docente sta valutando la prova e non la persona. I voti che si trasferiscono sulla persona sono devastanti». 
Quindi? 
«Voti come questo non hanno senso di esistere. Dovrebbero esserci: obiettivo raggiunto eccellentemente, raggiunto e non raggiunto. Non siamo ragionieri. Chi pensa che la scuola sia la stessa degli anni ‘60 farebbe meglio a cambiare mestiere». 
Il suo Cecchi è stato tra i primi istituti marchigiani a sperimentare la “scuola senza voti”. Cos'è? 
«Si tratta di un biennio con valutazioni che non tengono conto del voto ma degli obiettivi. Tu consegni il compito, la prova viene corretta assieme, il ragazzo si rende conto degli errori ed è in grado di autovalutarsi. Ai colloqui non si parla dei voti ma della personalità, delle caratteristiche e delle difficoltà dello studente». 
Quanto pesano le famiglie nel creare una percezione sbagliata del voto? 
«Le ansie spesso vengono dalle famiglie. Quando il ragazzo percepisce di non aver soddisfatto le aspettative dei genitori subentrano i sensi di colpa. Non possiamo far finta di niente. In questi anni ho assistito ad un incremento esponenziale di disagio psicologico ed anche psichiatrico: se prima era uno, ora sono cento». 
La scuola cosa può fare per individuare in tempo i segni del disagio? 
«Nel caso del ragazzo di Ancona credo che il disagio fosse interiore. La scuola avrebbe bisogno di psicologi e tutor. I docenti non hanno le competenze per individuare i segnali premonitori».

Lei è anche genitore oltre che prima docente e poi preside. Ognuna di queste tre categorie ha qualcosa da imputarsi?
«Nessuno deve recriminarsi niente, tanto i genitori quanto gli educatori.

Certamente dobbiamo fare una sorta di mea culpa collettivo. Bisogna portare alla luce problemi che abbiamo sottovalutato per troppo tempo. Alle fragilità delle nuove generazioni dobbiamo dare una risposta veloce per evitare che i casi come quello di Ancona si moltiplichino. I ragazzi stanno cedendo sempre di più».

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