Guns N' Roses, Roma scusa il ritardo:
niente bottigliate per Axl e la sua corte

Axl Rose in una foto d'archivio
Axl Rose in una foto d'archivio
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Domenica 5 Settembre 2010, 11:05 - Ultimo aggiornamento: 2 Ottobre, 23:30
ROMA (5 settembre) - I Guns N’ Roses erano annunciati alle 21. Ci si aspettava entrassero alle 21.30. Alle 22.15 sono partiti i primi fischi del pubblico. Alle 22.25 l’insofferenza ha romanamente generato il coro “C’avete rotto er...”, ma alle 22.35, quando partita “Chinese democracy”, tutto stato perdonato. A Dublino, per un’ora di ritardo, li hanno presi a bottigliate, ancor prima, al Reading Festival, gli organizzatori avevano staccato la spina.



Irrispettosi ritardi (verso il pubblico chiuso in un posto che si trasforma in una fornace e verso la scaletta che così deve essere tagliata o non permette improvvisazioni), risse, patetiche sortite, abbrutimento fisico, rinvii discografici: Axl Rose negli anni ha fatto di tutto per non farsi amare. Forse non abbastanza, se il concerto di ieri sera a Roma e quello di stasera a Milano hanno registrato il sold out. Tutti a vedere i Guns N’ Roses, ciò che ne rimane. Ovvero Axl e una corte di turnisti, fedeli chissà per quanto ancora. Da quando la band ufficiale si è sciolta, a metà dei ’90, in studio con il cantante si sono avvicendati diversi musicisti, andati poi via malamente, e il tanto atteso ritorno (su disco e in tour) ha risentito non poco delle scaramucce intestine e delle continue defezioni.



Eppure il nome è di quelli che fanno resuscitare gli entusiasmi. I Guns N’ Roses scossero davvero nel 1987 con il clamoroso debutto “Appetite for destruction”, proponendo un metal che accettava volentieri la melodia, un suono sporco, riff portanti e facili da tenere in memoria, rabbia di strada raccontata da belle facce da copertina. Personalità torturate, testi che narravano la decadenza di Los Angeles, crimini e misfatti, odi all’eroina, al sesso, allo zio Jack (Daniel’s); un look che fece subito tendenza insieme al corredo di dichiarazioni, mosse, pose (il cilindro di Slash, la danza del cobra di Axl, la sua bandana, le mutande con gli anfibi, il kilt). Una leccornia per il mercato.



Oggi Axl è un quarantottenne vestito da mandriano, da petroliere texano, indossa camice che gli coprono la pancia, bandane e cappelli che nascondono la calvizie, non fa più maratone sul palco e i colleghi sono più che mai lontani. A dispetto di ciò la sua forma è accettabile, il carisma tiene e la sua voce graffiata resta inconfondibile.



Si tratta però del “suo” concerto con alcuni vecchi pezzi dei Guns, quelli che in fondo sono venuti a sentire in novemila. Lui non si troverà d’accordo. Non si vede come un Guns rimasto solo, ma come l’unico dei Guns a portare avanti un marchio che ha giocato un ruolo di rilievo nella musica rock. E si diverte più con questa formazione di quanto non accadesse con l’originale. Se avesse voluto fare il solista, dice, si sarebbe dedicato ad un disco sperimentale e quasi tutto strumentale. Sarà.



Ma senza gli squinternati Slash, Izzy, Duff, non è né rosa né pistola. Perché, indipendentemente dal talento personale e da quanto quel talento abbia determinato il loro successo, si trattava di un nucleo dove la somma delle parti era superiore ai singoli individui, di un’epifania legata a un tempo e ad uno spazio. Le affinità di una band, le tensioni, le combinazioni alchemiche e le soluzioni che derivano dal contatto creativo, sono irripetibili. Irripetibili ma tecnicamente riproducibili e il nuovo assemblaggio di musicisti fa il suo lavoro, cambiando poco o nulla nei brani più famosi, gli assoli storici assegnati ed equamente distribuiti ai tre chitarristi: Bumblefoot porta uno stile personale, DJ Ashba, più blues, echeggia l’immagine di Slash con cappello a mezzo cilindro e sigaretta a fuoco eterno, Richard Fortus prende energicamente a cazzotti lo strumento. Possono ritagliarsi parentesi strumentali, ogni due o tre canzoni, per permettere ad Axl di sparire dietro le quinte a riprender fiato. E quando lo fa, non sembra esser passato poi così tanto tempo.



Nel live è sulla nuova “Sorry” che la voce si stappa, si sente nitidamente, e in generale sulle power ballad, quando cioè il volume delle distorsioni non impasta tutto e non avvolge nel cotone le orecchie del pubblico. Ma questo è un problema di acustica con cui il Palalottomatica si trova da sempre a fare i conti. Peccato anche i fuochi d’artificio, il cui botto dovrebbe andare a tempo con le canzoni ma non ci va, depotenziando di molto gli attacchi. In scaletta ci sono anche “It’s so easy”, “Street of dreams”, “Madagascar”, “This I love” (che dal vivo ha una buona resa), “You could be mine”, le cover “Live and let die” e “Knockin’ on heaven’s door”, un breve omaggio ai Pink Floyd. Quando partono “Welcome to the jungle”, “Mr. Brownstone”, “Rocket Queen”, “Nightrain”, le quartine di “Sweet child o’ mine”, la pigiatura di “Paradise city”, le note al piano di “November rain”, in una condivisa illusione, nello sforzo collettivo di dimenticare l’amputazione subita (mancano i Guns vecchi e nuovi), riemergono i sapori e gli odori di oltre vent’anni fa, si pesca nel proustiano edificio del ricordo, ognun per sé, e tutto sommato si torna a casa più clementi con Axl di quando si è usciti.
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