Paolo Rossi chiude la stagione del Teatro delle Energie di Grottammare con “Pane o libertà”: «Rievoco i miei lucidi sogni»

Paolo Rossi in una foto di scena
Paolo Rossi in una foto di scena
di Chiara Morini
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Domenica 17 Aprile 2022, 07:40

GROTTAMMARE - Sarà Paolo Rossi a chiudere la stagione del Teatro delle Energie di Grottammare. Sabato, 23 aprile, alle ore 21 salirà sul palco con il suo spettacolo “Pane o libertà”. La rappresentazione sarà preceduta, alle ore 18, da un incontro dal titolo “Paolo Rossi racconta Rabeilas” (info: 3312693939).

Paolo Rossi, come nasce “Pane o libertà”?
«Un po’ di tempo fa, era il periodo della pandemia, e l’ho ideato. Il titolo l’ho preso, anzi “rubato” da una frase de “La peste” di Camus. Qua sembrava che dopo la pandemia fosse tutto finito, invece c’è la guerra. Mancano solo gli alieni».


Cosa porterà sul palco?
«Non ho una vera e propria scaletta, la decido sul momento. Recitando con il pubblico si elimina la “quarta parete”, quel muro immaginario davanti al palcoscenico». 


Senza spoilerare troppo, come sarà quindi lo spettacolo? Ci sarà interazione? 
«Dopo tanto intrattenimento in video, serve il live. Tutto coinvolge il pubblico, anche il video ma mai quanto il teatro. Ecco questo voglio fare, perché il teatro è un luogo di relazioni sociali, un magnete che elimina le distanze, che sono senza futuro. Si mescoleranno i ruoli, il pubblico è importante».


Si riesce a coinvolgere il pubblico? 
«Direi di sì. Guardi sono intervenuto, a Milano, in un liceo occupato e una studentessa di 17 anni mi ha chiesto se c’è un futuro per il teatro inteso come il secolo scorso. A Roma mi hanno chiesto di video e di web. Credo che il mio sia un ruolo di “traslocatore” verso una nuova casa». 


In che senso? 
«I tempi cambiano, vero, ma è la storia stessa che porta avanti i residui del passato e questo vale per tutti gli ambiti, il teatro come la vita di tutti i giorni e anche purtroppo la guerra». 


In “Pane o libertà” qual è il messaggio? 
«Rievocherò i miei sogni lucidi, fatti di storie che aiutano a resistere, a scegliere tra il pane e la libertà, o a non scegliere proprio.

Alla domanda rispondo “No messaggi!”, è passato il tempo in cui credevo in questo. Oggi dobbiamo prenderci un po’ alla leggera, curare l’anima, fare intrattenimento e offrire al pubblico un momento diverso. È la nostra responsabilità, di chi fa il nostro mestiere».


Come la mettiamo con il “politically correct”?
«Io sono un esperto, ho subito tante di quelle censure! Come per il Kabarett, quello puro, con la K, che ai tempi di Weimar era clandestino. In pandemia il nostro settore è stato penalizzato, nessun ristoro. Ma il mio mestiere è ovunque, dove sono, anche in un luogo qualunque, lì c’è teatro». 


Cos’è quindi il teatro per lei? 
«Portare qualcosa di vero, di reale, di buffo. Oggi sembra che tutti recitino meglio degli altri, la scenografia del presente fa sì che non si capisce più chi recita e chi no». 


Chi ricorda con più affetto degli incontri nella sua carriera? 
«Enzo Jannacci, con cui ho passato molto tempo, quasi uno zio che mi ha mostrato questo mondo. Giorgio Gaber mi ha insegnato il rigore, e Giorgio Strehler, una scoperta, l’ho trovato vicino a me. Dario Fo, da cui ho potuto “rubare” alcuni trucchi. Ne parlo al presente, loro sono ancora tra noi, anche se non fisicamente». 


Qualcosa che non rifarebbe? 
«Non rinnego niente di niente, non dobbiamo scusarci per fare satira».


Qualcosa che non ha ancora fatto e vorrebbe? 
«Sto facendo tutto quello che volevo, anche se con fatica ormai. C’è chi sta peggio. Oggi ci si lagna di più rispetto al passato, e ce n’è pure meno motivo».

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