La violenza efferata come espressione di un profondo senso di inadeguatezza

La violenza efferata come espressione di un profondo senso di inadeguatezza

di Rossano Buccioni
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Martedì 15 Settembre 2020, 10:40
«Il corpo di Willy Monteiro Duarte portava i segni inequivocabili di una manciata di minuti di follia e barbarie». Nelle indagini della magistratura si sottolinea come la violenza per futili motivi perpetrata dagli assassini di Colleferro, evidenzi una «completa indifferenza per ogni deterrenza giudiziaria». Razzismo? Stati di alterazione additiva in un sabato sera figlio dell’ambiguo mascalzonismo della provincia italiana? Dall’ultimo saggio della psicologa Nicoletta Gosio leggiamo: «Love is in the air – l’amore è nell’aria – è il felice titolo di un grande successo discografico di qualche decennio fa, ma di certo oggi suonerebbe più appropriato “rage is in the air”. La rabbia, l’aggressività è nell’aria: la respiriamo, la condanniamo e ne soffriamo tutti. E tutti infondo pensiamo che i responsabili, quelli che sbagliano, siano gli altri». Nelle nostre relazioni quotidiane soffriamo un clima di forte intolleranza ed immediata propensione all’accusa. Il dominio dell’ira e di un’acuminata indifferenza vanno di pari passo con il rifiuto (più spesso l’incapacità) di fare i conti con le proprie fragilità, costruendo gli altri come rassicurante proiezione delle parti incancrenite del sé. L’infelicità psichica è stata sempre letta come segnale del mancato funzionamento del processo di socializzazione ed oggi i tanti episodi di cronaca nera ci interrogano da una duplice prospettiva: dobbiamo solamente constatare la scarsa qualità dei dispositivi di condizionamento sociale, oppure dobbiamo pensare ad una loro trasformazione tale da cambiare considerevolmente il tipo di uomo che tendono a produrre? Si è “civili” perché si è imparato a reprimere e differire le spinte pulsionali, assecondando un processo senza fine destinato a rinnovarsi ad ogni cambio di civiltà, con la costante imposizione di nuovi sacrifici pulsionali che potrà determinare il rischio di maggiore infelicità. La costruzione dell’individuo socializzato prevede che il passaggio dallo stato di natura a quello civile vada ripetuto ad ogni generazione ed ogni società dovrà mantenere sempre efficienti quelle che gli antropologi definiscono “macchine antropogeniche”, cioè strategie efficaci di interiorizzazione delle ricompense simboliche coerenti con il modello umano di cui necessita una particolare società. Ma le trasformazioni in atto che coinvolgono i generatori di senso della nostra società, dimostrano che “le macchine dell’interiorizzazione” funzionano sempre peggio, o che stia proprio cambiando la tipologia di uomo che i nostri meccanismi sociali tendono a produrre? La civiltà ha sempre un costo e, in un certo senso, l’uomo attuale è più infelice di quello del passato, ma è giunto il momento di accettare il fatto che in una società fortemente differenziata è inutile limitarsi a constatare che le dimensioni patologiche si siano trasformate e che sempre più spesso il disagio, piuttosto che segnalare la linea di faglia tra l’lo e l’Es, si costruisce all’interno dell’estrema frammentazione dell’individuo. Dalla psicoanalisi fino a Talcott Parsons, l’infelicità diffusa nelle società tardo-moderne rispecchierebbe le pretese esagerate della civiltà, con un crescente costo pulsionale che il processo di civilizzazione ci costringe a pagare per ottenere giusto riconoscimento. Lo “specifico contemporaneo” (R. Calasso) evidenzia come nell’incremento della complessità strutturale della nostra società si determini una crescente divaricazione tra sistema psichico e sistema sociale e ciò costringe a verificare se lo stesso concetto di civiltà ereditato dalla cultura moderna in chiave emancipativa, possa ancora essere riproposto o non richieda una radicale ridefinizione. Nel trionfo della dimensione factual, dove vince la logica del “funziona perché funziona” (non quella del “funziona perché ha un senso”), il c.d. movimento “post-human” propone il superamento delle tradizionali definizioni di essere umano a partire dalla sintesi di tecno-scienza e condizione umana nella civiltà industriale. Nel passaggio da una condizione umana ad una post-umana, la crescente separazione tra sociale ed umano determina una crisi senza precedenti nel funzionamento delle agenzie di mediazione tra il bios e il logos, tra corpo e società. Il sociale - da pensare qui come sostantivo e non come aggettivo - è un sistema comportamentale avente dinamismi propri che, privi di intenzionalità, operano oltre il soggetto tradizionale. L’umano sembra coincidere sempre meno con le trame di senso che si costruiscono tra soggetti agenti. Nella vicenda laziale la contingenza esterna teneva in scacco il mondo interiore degli omicidi, intimando in oggetti e pratiche sociali un violento alfabeto di conformità. Questo perché spesso l’umano appare dislocato rispetto alla struttura del sistema sociale (entro nicchie esistenziali, in dimensioni neo-comunitarie, nell’empatia o in nuove coscienze collettive). Alla creazione di un “uomo aumentato”, la cui trasformabilità rappresenta (per i post-umanisti e non solo) la fine della condizione umana come è stata fin qui conosciuta, potrebbero corrispondere vere e proprie metamorfosi dello psichismo, con le inedite forme di disagio e violenza cui stiamo assistendo che costituirebbero un cluster psico-sociale all’interno del quale un improbabile “io-appendipanni” - che a stento sostiene le sue troppe maschere - ricerca la disperata corrispondenza con l’estrema differenziazione dei sistemi sociali. Ormai, le logiche auto-organizzative della società globale si basano sulla sostituibilità tecnica degli esseri umani (M. De Carolis), dotati di competenze sociali intercambiabili che cingono d’assedio mondi vitali irripetibili, ormai privati di ogni tutela.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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